Una volta lessi una frase di un anonimo riguardo la musica, una delle tante che se ne trovano in giro, ma che mi colpì particolarmente, che diceva: la musica non è un insieme di note, ma la cosa più perfetta che esista: è felicità, malinconia…è tutto ciò che vuoi che sia…ma è soprattutto parte di noi. Un’aforisma che riesce a catturare perfettamente non solo la chiave di lettura di Let It All In, uscito gennaio scorso, ma di tutto il percorso che ha sempre contraddistinto gli I Am Kloot.
Da ormai 15 anni infatti il trio di Manchester, guidato dal bravo John Bramwell, è sempre rimasto volutamente schivo dai soliti giri commerciali, tra facili scorciatoie mediatiche in pieno stile mtv e le solite facilonerie di singoli ruffiani per le masse. Eppure, nonostante questa decisa presa di posizione, è bene notare che sono comunque riusciti a ritagliarsi un discreto seguito nel circuito underground, continuando a rimanere coerenti con sè stessi come con i loro fans.
Se già negli altri album, e ancora di più col precedente e bellissimo Sky at Night del 2010 si sentivano forti le influenze beatlesiane e del britpop di Blur e Oasis, in quest’ultimo lavoro la questione s’accentua ulteriormente, affidandosi inoltre nuovamente alla produzione del duo Garvey-Potter degli Elbow. Il disco viaggia tra scelte semplici ma ben curate, dal dark cabaret della opener “Bullets”, che sembra uscita fuori da una colonna sonora di un qualsiasi film di Tim Burton, a orchestrazioni raffinate (già presenti nel precedente “Sky at Night”) di una bellissima e noir “Hold Back The Night”, delineata da un’inquietante suspence iniziale, merito di un elementare ma determinante giro di basso di Jobson e un cantato gracchiante e gelido di Bramwell a creare maggiore tensione all’atmosfera, per poi sfociare nella seconda parte in un crescendo orchestrale sempre più delirante. E’ impossibile tra l’altro non notare le citazioni e i riferimenti ai Beatles durante tutto l’album, a partire da “Masquerade” e la simil-title track “Let Them All In”, con l’interpretazione canora di Bramwell a emulare prima la timbrica di Harrison e poi quella di John Lennon, per passare alle ballate acustiche di “Some Better Day” e la conclusiva “Forgive Me These Reminders”, con dei testi ricchi di forti e bei messaggi ottimisti, ma anche nel singolo “These Days Are Mine” che insieme alla indie “Mouth on Me” caratterizzano i momenti più energici e briosi del LP.
Questo è un album che non vuole per forza essere innovativo in termini prettamente musicali, ma che al contrario sviluppa ulteriormente il lato qualitativo, ed è sicuro che, sebbene molto sui generis e non così diretto a un pubblico commerciale, potrà crescere d’interesse col passare degli ascolti (e già alcuni risultati si sono potuti cogliere da quasi un anno dalla sua uscita): un viaggio intimo tra forte cariche d’ottimismo e momenti più riflessivi, forse un po’ oscuri ma che comunque spingono verso una luce di giorni migliori, per ritrovare anche da un lavoro così semplice e raffinato quella parte di noi stessi, del nostro inconscio, che ancora continuiamo a cercare, o semplicemente a non vedere.
Voto: 7,5