Cenni biografici autore

Introduzione:

Quello che mi ha spinto a realizzare questo lavoro è forse il desiderio di dare ordine ad una materia vasta, ma spesso presentata frammentariamente, e al tempo stesso il desiderio di scegliere un’angolazione particolare atta a mettere in luce aspetti dell’opera di Lolli poco conosciuti.

La tesi intende  analizzare  sia il periodo che va dal 1972, anno di Aspettando Godot, al 1975, anno di uscita di Canzoni di Rabbia, sia, e con maggiore attenzione, il periodo che è posteriore al 1976, anno degli “Zingari Felici”. Un periodo misconosciuto che merita attenzione e che ci porterà fino all’ultima e recentissima uscita de La scoperta dell’America” del 2006, dopo otto anni di silenzio, non totale, perché Lolli è solito non fermarsi mai.

Anzitutto, perché questi due periodi ben precisi, con “gli Zingari” in mezzo, segnano due poli, uno d’inizio ed uno di fine; e circoscrivono una fase precisa di un cammino, dell’esplorazione di un percorso.

E’ in questo periodo infatti, che si affina il meccanismo creativo di Claudio Lolli dove si estrinseca una libera rappresentazione dei propri ideali senza compromessi, anche sconfinando nell’utopia, pur di esser fedeli alla propria coerenza.

Bisogna sottolineare la pretesa non categoricamente scientifica di affrontare questo così delicato argomento, ma uno spirito tendenzialmente giornalistico e filosofico nel mettere insieme le disparate fonti  (che indicherò alla fine del lavoro complessivo) a cui ho dovuto attingere per realizzare questo lavoro.

Libertà. E’ proprio questa la parola chiave che mi ha guidato all’interno della costruzione di questo lavoro: capire, comprendere e stabilire le caratteristiche di questa poetica.

Non è stato semplice riuscire ad individuare questo tipo di percorso, forse anche per una ragione ben precisa, che io stesso mi sono imposto come regola: guardare l’opera di Lolli senza associarla necessariamente alle etichette con le quali è stata interamente catalogata senza distinzioni; infatti mi è sembrato opportuno guardare alla musica di Lolli senza necessariamente ricorrere ai codici di forme come cantautore triste aspirante suicida , di conseguenza non si può prescindere dall’amore per le atmosfere malinconiche e desolanti, soprattutto degli inizi, ma bisogna rivolgersi verso questo aspetto con una chiave di lettura più ampia e multiforme. Allo stesso modo si è soliti ricorrere semplicisticamente a qualificazioni che stigmatizzano Lolli unicamente come mero esponente del movimento del ‘77 senza altre possibili sfumature, proprio per trovare nel discorso poetico-musicale dell’autore valori che trascendono le storie proposte. Questo grazie anche alla guida preziosa di Johnatan Giustini nel testo: “Claudio Lolli, la terra, la luna e l’abbondanza”, insieme all’analisi dello sparuto materiale satellite che è stato possibile reperire e a cui abbiamo prima accennato.

 lolli

INTERVISTA CLAUDIO LOLLI – BOLOGNA (anno 2006)

CAPITOLO I

Lolli quando ancora non pensava che avrebbe scoperto

l’America[2]

 

1.1 Claudio Lolli: gli inizi

 

Poeta stravagante della morte e della vita, sempre in bilico tra la dicotomia del personale e del sociale.

Dall’anarchia stilistica, di una libertà d’espressione senza compromessi, intimista contestualizzato e attento osservatore della società, instancabile cantautore al di là dagli schemi di produzione discografica e diffusione pubblicitaria, Claudio Lolli nasce il 28 marzo del 1950 e cresce in una famiglia borghese a Bologna,.

 

 

Le sue canzoni non sono per masticatori di musica usa e getta, non sono per chi cerca soltanto una facile melodia da fischiettare, nonostante la potenza di alcuni brani permetta persino questo.

La musica di Claudio Lolli non si sogna affatto di intrattenere nessuno, ha qualcosa da dire e la dice nella sua forma poetica spontanea e allo stesso tempo accuratamente meditata.

Mai si sarebbe sognato di arrivare a pubblicare quasi due decine di album.

Lui che non osava bussare alla porta di nessuno, forse per timidezza, forse per orgoglio o noncuranza, è riuscito a suo modo a farsi ascoltare e continua ad incantare le platee, dove lo ascoltano non solo attempati seguaci, ma anche giovanissimi.

A lui cui poco importa possedere un suo cd originale, ma solo qualche copia casuale o addirittura qualche musicassetta.

Non avrebbe mai sospettato di “scoprire l’America” nel 2006, dopo più di trent’anni dagli esordi.

Tutto partì quando Francesco Guccini in persona lo prese per mano e gli suggerì di rivolgersi verso un pubblico sempre più vasto ed “aspettare Godot…”

Le sue prime esperienze musicali avvengono all’Osteria delle Dame di Bologna nei primi anni ’70. Il suo stile trae qualche moderato spunto da Francesco Guccini, ma presenta connotazioni originali. I testi delle canzoni tratteggiano squarci di vita ordinaria. Si accompagna con la chitarra usando una rudimentale tecnica fingerpicking. Come da lui stesso definita in un suo pezzo di fine anni ’70, la sua è “una voce da regno dei più o da festival del sottosuolo… così piena di granchi di stracci di ragni e altre cose un po’ strane”.

Nel 1972 è uno dei tanti giovani cantautori più o meno sconosciuti (Claudio Rocchi il più noto all’epoca, gli altri erano Antonello Venditti, Francesco De Gregori e Alan Sorrenti) che mandano registrazioni non professionali alla trasmissione “Per Voi Giovani“, creata da Renzo Arbore e condotta da Carlo Massarini.

Inizialmente Claudio Lolli è cantore di un disagio esistenziale che richiama più a Sergio Corazzini e indirettamente a Guido Gozzano che al grande pessimista Giacomo Leopardi. Successivamente trova una autonomia artistica che gli consente di esprimere il suo dolceamaro mondo poetico in bilico tra la provincia emiliana materna e uterina e l’incubo della città anonima e inospitale. Scrive alcuni pezzi magistrali sul piano musicale e armonico (citiamo Viaggio, Donna di fiume, Anna di Francia, Michel, Come un Dio americano).[3]

 

Per completare questa sorta di scarna biografia che ci consente di avere qualche notizia storica sul personaggio che stiamo analizzando, vorrei citare il testo di una sua canzone che lo delinea in qualche modo nell’aspetto finora analizzato.

Si tratta di “Autobiografia industriale”, contenuta nell’album del ’77 “Disoccupate le strade dai sogni”.

 

Il primo giorno,

che ho messo un piede alla EMI,

mi hanno guardato,

sembravano tutti un po’ scemi.

Qualcuno diceva,

che ero il garzone del bar,

che aveva lasciato il caffé sulle scale,

qualcuno diceva,

che non ero normale,

qualcuno rideva, rideva …

Il direttore,

una strana espressione sul viso,

fece una smorfia

che oggi voglio chiamare sorriso,

e mi introdusse

nel suo studio di uomo arrivato,

mi parlò di arcipelago o gulag,

e mi disse: “Io penso,

che oggi sia molto giusto assentire al dissenso,

al dissenso…”.

Autobiografia industriale,

viva l’amore con l’industria culturale,

amore erotico e soddisfacente,

ma in definitiva,

un po’ troppo esauriente.

 

L’arrangiatore,

dopo avermi ascoltato un pochino,

disse “non male,

è simpatico quel valzerino,

io ci vedrei,

sopra un primo e un secondo violino

e una viola che piange da sola,

perché no, una pianola,

qualche cosa che prenda

e che stringa alla gola, alla gola”.

Il tecnico audio,

mi squadrò con un ghigno feroce,

ma il peggio è stato

quando ho fatto sentire la voce,

così piena di ragni di granchi di rane,

e altre cose un po’ strane,

una voce da regno dei più,

o da festival del sottosuolo,

una voce oltretutto

che mi accompagnavo da solo.

Autobiografia industriale,

viva le tette dell’industria culturale,

tette opulente e dissetanti,

ma in definitiva un po’ troppo pesanti.

 

 

Io a quel tempo,

stavo ancora aspettando Godot,

cioè aspettavo la morte

per poter dire “rinascerò”,

fatto diverso,

collegato d’amore alle masse,

più cultura, più lotta di classe,

ma Godot non è mai arrivato,

si fa le cose sue,

ed è meglio così, certo

per tutti e due.

Come prodotto,

non sono riuscito un granché,

vendono certo,

molto più Jagermeister di me,

ma lo confesso,

questo in fondo è un piacere da poco,

e non prova che sono diverso,

seriamente diverso,

com’è amaro il tuo calice vita,

com’è amaro il tuo gioco.

Autobiografia industriale,

cioè come il latte dell’industria culturale,

un latte amaro, molto indigesto,

ma soprattutto un po’ troppo caro.

 

La confezione,

con il marchio di verginità,

l’hanno affidata

a un fotografo di qualità,

che in verità,

al vedermi rimase perplesso,

con quella faccia da fesso

potrei fotografarlo,

solamente in un cesso, magari

con un po’ di velluto rosso.

Il primo giorno

che ho messo un piede alla EMI,

mi hanno guardato,

sembravano tutti un po’ scemi,

ma oggi ho capito

che di tutti il più scemo ero io,

l’unico che si prendeva sul serio

e restava anche male,

un incrocio terribile insomma,

tra un coglione ed un criminale.

Autobiografia industriale,

come inserirsi nell’industria culturale,

cioè come possono gli intellettuali,

dare una mano,

per mantenere gli stessi rapporti sociali

 

1.2 La triade

 

                                                                             

 

Per “triade” voglio intendere i primi tre album che appartengono alla prima fase stilistica di Lolli, prodotti per la Emi. Vorrei precisare che questa non è una mera classificazione temporale, ma l’individuazione di un periodo ben preciso.

Inoltre, i tre album presentano caratteristiche comuni e seppur certamente insufficienti per tracciare il complesso “universo-Lolli” sono di fondamentale importanza per la nascita e la formazione del cantautore in questione.

Non sarà sicuramente un percorso tradizionale di ascesa verso un successo universalmente riconosciuto, come ad esempio quello di Guccini, scopritore del nostro Lolli.

Lolli è una stella del firmamento cantautorale grossa, sicuramente enorme, ma se ne sta sicuramente nascosta, non sta in mezzo alle altre visibili a tutti.

Può ravvisarsi in questa osservazione una della sue particolarità.

Questo verrà dimostrato nel corso di questo lavoro, attraverso le varie testimonianze del suo pubblico che va i suoi concerti e non solo, attraverso la sitografia e la sua vastissima discografia.

In moltissimi lo conoscono, lo apprezzano o ne fanno un’aperta critica, ma chi lo conosce è come uno scopritore di questa stella, dato che egli raggiunse certo una visibilità considerevole in un periodo preciso a cui accenneremo, ma che poi si nascose, tuttavia continuando a brillare e produrre luce (nonostante i momenti di silenzio, Lolli non ha mai smesso di scrivere e di produrre dischi).

Sono album che solo quella catena di esploratori cantautorali, i “Lolliani”, conoscono a fondo e si gongolano masticando quei testi intensi e rari.

Pietra miliare di tutti i Lolliani, particolarmente dei neofiti che si accostano per la prima volta, è l’album degli esordi “Aspettando Godot” del 1972. Non a caso le canzoni che spiccano più nell’immaginario collettivo sono “Borghesia”, “Aspettando Godot” e “Michel” e dopo vengono gli Zingari felici.

Disco dagli alti momenti lirici, frutto di spontaneità infinita, fresca ingenuità non curante, profonda introspezione con gli occhi di un adolescente che la sa lunga e che avrà molto da dire, anche se la sua voce non sarà mai spiattellata sulle bancarelle di un mercato discografico di massa (anche se qualche sedicente discografico farà qualche goffo tentativo in tal senso).

In pezzi come “Angoscia metropolitana” e altri in cui è più evidente questo connubio sublime che spesso invita a quella che gli ascoltatori spontanei chiamano “pelle d’oca”, possiamo assaporare quel magico incrocio tra il testo e la musica che può suscitare travolgenti effetti emozionali se ascoltato in particolari momenti della propria vita e non con criteri analitico-ipercritici.

Qualora si analizzassero le singole strofe, una parte di questi effetti si perderebbe un po’ e si rileverebbe quell’ingenuità di fondo a cui si è già accennato e per cui Lolli chiede perdono negli anni a venire, ma che mai rinnega.

Addirittura alcuni pezzi sono antecedenti al ’72: è l’esempio di “Borghesia”, scritta nel ’68, non a caso. Abbiamo quindi un Lolli diciottenne in pieno Sessantotto.

La struttura dei testi presenta molte anafore e alcune rime che a volte troviamo ripetute da una canzone all’altra.

Per quanto riguarda l’economia testo-musica, abbiamo strofe con una stessa melodia che si ripete, ma con delle varianti, mentre alcune parti, che spesso richiamano il titolo, vengono menzionate

ciclicamente, marcando il contenuto senza banalizzarlo e dando così un equilibrio alla struttura generale. Credo non si possa parlare di ritornelli veri e propri, ma di pseudoritornelli, caratteristica che avrà una consistente maturazione e sviluppo in “Ho visto anche degli zingari felici”.

I temi affrontati vanno dall’amicizia, da un intimismo sfrenatamente privato ad alcuni aspetti paradossali dell’amore, della morte e della vita.

Nel successivo album del ’73 “Un uomo in crisi”, s’insinua quella malinconia spettrale che spesso ha portato al restrittivo stereotipo che dipinge Lolli con scarse pennellate, come il cantautore triste per eccellenza, una delle tante stigmatizzazioni che l’hanno inquadrato in qualche modo.

Dal libro di Giustini[4] si svelano i retroscena che riguardano la scelta visiva e quindi la presentazione grafica del disco.

Pare che dietro la fotografia di copertina del disco del ’73 ci sia una certa casualità, nonostante l’autore sia un famoso fotografo, Umberto Tedesco, conosciuto per aver lavorato ai primi dischi di Alan Sorrenti.

Per quanto riguarda la foto della copertina del disco, Giustini elargisce questa pittoresca impressione: “Personalmente Claudio mi appare con un incrocio tra un Massimo D’Alema adolescente e il Moretti più autarchico”.

A parte la divertente immagine fornitaci dal giornalista, io non sarei così dissacratorio verso la scelta “visiva” del disco.

Anche se viene da lui sottolineata una certa casualità nei confronti di questa scelta, soprattutto dallo stesso Lolli, ritengo che la copertina in questione sia più adatta di quanto si possa pensare, in quanto non c’è niente di più malinconico di un uomo seduto sul fondo di una stanza scura, grezza, in posizione raggomitolata in una incertezza tendente al torpore.

Dal punto di vista musicale e poetico, in questo disco si è in bilico tra la vita e la morte, squarcio di una crisi più profonda. C’è infatti una partizione tra canzoni di morte – Io ti racconto, La guerra è finita, Un uomo in crisi, Un uomo nascosto, Quello lì (Compagno Gramsci) – e canzoni di vita – La giacca, Hai mai visto una città, Morire di leva (a un amico siciliano), Un bel mattino.

Un desiderio di vita che porta alla contemplazione della morte, forse intesa come negazione di una vita poco accettabile e, di conseguenza, esempio di una vita migliore e rinnovata.

“Un bel mattino” rappresenta a mio avviso questa profonda contemplazione, quasi come un’onirica fantasia suicida, intesa come spinta al non esistere, al non essere mai nati, una dolce spinta allucinogena verso il nulla.

Ovviamente si tratta di un Lolli post-adolescente, ma non è da confondersi sempre e comunque l’essenza della produzione artistica con l’artista e questo verrà ribadito da Lolli stesso durante i concerti.

All’uscita del libro di Giustizi, che presenta anche numerose illustrazioni fotografiche di un Lolli inedito, alcune recensioni sul web ribatterono ironicamente, parodiando il titolo dell’album del ’76, con un “ho visto anche un Lolli felice”, memori del ricorrente stereotipo.

Abbiamo trascurato fino ad ora la questione dell’arrangiamento, fattore caratterizzante della “triade” in questione.

Si hanno arrangiamenti scarni, con la prevalenza della chitarra acustica sugli altri strumenti, tuttavia si ha una cura certosina per tutte le tracce minimali che, come spiegherà Lolli in un’intervista, all’epoca furono aggiunte da altri arrangiatori alla sua traccia solitaria della chitarra e della voce.

Parlava di grandissimi studi di registrazione, infatti si può apprezzare la qualità audio che contraddistingue le prime produzioni se confrontate ad altre produzioni a cura di diverse etichette discografiche.

In questo caso, parliamo di qualità puramente tecniche, non artistiche.

Mentre in “Aspettando Godot” si ha un’arrangiamento certamente minimalista, in “Canzoni di rabbia” del ’75 – ultimo album della triade o, come dicono alcuni recensori, del “primo periodo” – v’è come un intrecciarsi di tutte le tracce più pomposo e vagamente bucolico che si sovrappone all’essenziale traccia della chitarra/voce di cui abbiamo precedentemente parlato.

Lo schema testo (strofa strofa ritornello) – musica (introduzione e stessa melodia/armonia che si ripete con alcune variazioni) è sempre lo stesso, un po’ comune a tutti gli album della triade.

Addirittura in questo album serpeggiano lievi cori di voci femminili che rendono ascetici e lirici alcuni brani, come in “Donna di fiume”.

Una caratteristica comune a molti pezzi è senz’altro la presenza di strumenti a percussione che danno una sensazione di disorientamento dato che gli interventi non sono regolari né per posizione nel brano né per loro ritmo interno; spesso si trovano verso la chiusura di alcuni brani, con l’intenzione di conferire una certa enfasi che, secondo i gusti personali, potrebbe risultare tronfia e accessoria.

Ricorre ancora il tema dell’adolescenza, è il caso di “Vent’anni”, come di “Quanto amore” degli album degli esordi. “Vent’anni e uscirne fuori è fatica…” è una frase emblematica che dipinge con una secca pennellata la tragica crucialità di questo periodo della vita.

Ancora più cruciale un’adolescenza che in quel periodo era imbevuta di fervori giovanili e movimenti politici.

Andando avanti con il suo percorso, sul tema personale, introspettivo, in alcuni casi, appunto, adolescenziale, converge il tema sociale, come ne “Al milite ignoto”, “Morire di Leva”, “Un uomo in crisi” dell’album medesimo o “Borghesia” del pre-esordio, su cui Lolli farà le dovute precisazioni nei concerti, decenni dopo.

Vorrei aprire una breve parentesi e soffermarmi un attimo sui mutamenti apparentemente insignificanti, ma estremamente rivoluzionari che incontreranno il testo di Borghesia.

Emblematico ed esplicativo è un articolo di Giovanni Egidio ne “La repubblica” che risale al sei dicembre del duemila.

 

Il cantautore di sinistra cambia le parole della storica canzone degli anni Settanta.
Lolli non spazza più via la borghesia

E come se ritrovassimo l’anarchico che guida allo schianto la Locomotiva di Guccini, dire – anziché “trionfi” -; “raccolga larghi consensi la giustizia proletaria”. Esce infatti il nuovo disco di Claudio Lolli (“Dalla parte del torto”), cantautore politico per eccellenza degli anni ’70, e scopri che la versione della storica canzone “Borghesia” ha cambiato parole. Due piccoli ritocchi, in verità, ma abbastanza significativi. Molti ricorderanno il verso in cui lolli della “vecchia, piccola borghesia” diceva “un giorno il vento ti spazzerà via”.

Ecco, oggi ci ha aggiunto un “forse”. E ha aggiunto anche un “ex”, a seguito della parola comunista (“di disgrazie puoi averne tante, per esempio una filia artista, un figlio commerciante o, peggio ancora, comunista… ex”). Ora, che i muri fossero crollati e che le ideologie fossero sul punto di, lo sapevamo tutti. Ma se anche un duro e puro come Claudio Lolli inizia la fase di autocritica, significa che di quei tempi si stanno perdendo pure le tracce. O no? «Ma no, nessun revisionismo – risponde Lolli, oggi 50enne, marito, padre e professore allo Scientifico di Casalecchio – e nemmeno nessuna autocritica. Semmai, solo un po’ di autoironia.

Il disincanto ha colpito anche me, e allora lasciate che ora abbia qualche dubbio in più sul fatto che la borghesia un giorno sarà spazzata via…». Ci sarebbe da dire anche di quel “comunista” seguito nella nuova versione dalla preposizione “ex”. «Badate, non dico “ex comunista”, faccio solo seguire un “ex” alla definizione, qui col gusto di scherzarci su. Insomma, credo che lo spirito della canzone non sia cambiato affatto». Di politica, oggi i testi delle canzoni di Lolli sono molto meno intrisi, quasi in sintonia coi tempi. Ma il cantautore-professore, che magari ha abbandonato una certa militanza artistica, non ha affatto mutato le sue profondisime convinzioni, più che mai radicate a sinistra della sinistra. Come si può ben capire sentendolo rispondere all’ultimo quiz della politica: Rutelli o Berlusconi? «Che dire, perda il peggiore».

 

Chiusa questa importante e doverosa parentesi, torniamo ad affrontare i temi legati agli album della prima produzione artistica.

Nell’ultimo album della triade, la “rabbia” non è indistinta, ma i brani sono suddivisi in due gruppi: “rabbia solitaria” e “rabbia lucida”, sempre a testimoniare che il progetto, seppur spontaneo e sentito, in parte libero dai condizionamenti del mercato, è sempre cosciente e costante nella sua cognizione di causa, sempre attento, analizza e discerne le emozioni interne, specchio fedele del suo contesto generazionale.

Una costante di Lolli, come dimostra questa suddivisione razionale di un oggetto irrazionale, sarà proprio, appunto, la razionalizzazione critica dell’irrazionale.

Ovviamente non bisogna cadere in un’altra delle famose etichette, quella del “cantautore generazionale”. Bisogna andare oltre, sempre e comunque, come ad ogni costo e a sue spese, Lolli va oltre.

 

 

1.3 IL CONTESTO STORICO, APPROFONDIMENTO SUL MOVIMENTO DEL ‘77

 

Una delle stigmatizzazioni  che caratterizzarono e caratterizzano ancora Lolli, è quella “storica” che inquadra Lolli come cantautore del movimento del ’77.

Per uscire da queste etichette è bene conoscere le coordinate storiche che le hanno determinate. In questo paragrafo, quindi, daremo qualche delucidazione  sul movimento citato e cosa significò a quel tempo.

Fu un movimento che nacque nella seconda metà degli anni Settanta sulle rovine dei gruppi della sinistra extraparlamentare.

A differenza del ’68, questo movimento vide la partecipazione non solo degli studenti benestanti ma soprattutto dei figli di operai e dei giovani proletari.

Ogni sezione adottava una linea politica diversa dai vari circoli del proletariato giovanile: chi si preoccupava di occupare le case, chi combatteva l’eroina, chi convinceva interi quartieri all’autoriduzione delle bollette; insomma, anziché teorizzare solo la rivoluzione, questi giovani aiutavano nel quotidiano i proletari delle periferie degradate.

Nel marzo del ’77 Bologna e Roma furono sconvolte da vere e proprie battaglie causate rispettivamente dalla violenza della polizia e dall’iniziativa degli autonomi che la attaccarono direttamente.

In entrambe le situazioni tutto il movimento fu costretto all’uso massiccio della violenza per evitare la soppressione.

Molto rappresentativa ed emblematica, la canzone “I giardini di marzo” illustra perfettamente questo clima storico, attraverso la sua sghemba struttura ritmica, la declamazione martellante del testo e nell’interpretazione a limite della dissonanza, proprio come fosse una fredda e brutale valanga di informazioni di cronaca che attraversa l’ascoltatore, determinata ed impassibile.

Dalla critica considerata come la canzone più innovativa di Claudio Lolli.

Si esprime il cantautore a tal proposito: “Invece di raccontare io quello che ho vissuto e sentito in quei giorni del 77 di Bologna, ho scelto di fare il montaggio di quello che ironicamente – riferito a me – i giornali dicevano.

Come in qualche modo linguisticamente i media travisavano il dato, perché raccontare un avvenimento, molto spesso significa adattarsi alla visione che il potere ha di questo avvenimento.

Tentando di sfuggire alle logiche narrative, avevo scelto questo espediente.

[…] Parlavano di quello che succedeva, l’idea eradell’artista dentro il movimento, di quello che va in giro col tacquino a vedere quello che succede, però non fa il giornalista; non deve semplicemente riportare dei fatti, ma deve cercare di capire che cosa succede esattamente.

Mi ha fatto molto piacere come nessuno abbia considerato questi dischi come qualcosa di esteriore al movimento. […] Erano anni meravigliosi, di grande emozione, di grande vitalità, di grande energia, coincisa probabilmente con la giovinezza, sarà un caso fortunato o fortuito…[5]

 

In quel periodo, per una piccola percentuale di studenti, fu breve il passo dalle barricate difese con bottiglie molotov e spranghe all’uso di pistole, come le famigerate P38, e fucili.

Questo movimento prende il nome dall’anno in cui più forte fu lo scontro con le autorità. Nel 1977 la parte “pacifica” e creativa del movimento,che intendeva difendersi solamente nei cortei, e l’Autonomia operaia, che invece promulgava la lotta armata in piazza, consumarono la rottura definita col PCI.

Questi duri scontri con polizia e fascisti portarono al movimento numerose vittime. Il Movimento era ormai in ginocchio verso la fine degli anni Settanta. Con il rapimento Moro la soluzione trovata dal quotidiano Lotta continua “nè con lo stato nè con le brigate rosse” fu, suo malgrado, l’incudine e il martello che distrusse il movimento. Furono infatti moltissimi i giovani che si avviarono verso la lotta armata e molti altri imboccarono la via dell’eroina. Il resto del movimento, in parte per il disimpegno in parte per la repressione, scomparì del tutto lasciando una sola organizzazione che, schierata alla sinistra del PCI, fu un punto di riferimento per i giovani impegnati in quegli anni. Era la Democrazia Proletaria.

 

CAPITOLO II

 

           Lolli, la svolta centrale: Ho visto anche degli zingari felici

             

  • E così s’inventò gli Zingari Felici.

 

Nel documentario “Salvarsi la vita con la musica” di Salvo Manzone Lolli dichiara: A un certo punto, mi è pesata la solitudine, cioè questo suonar da solo e la forma molto chiusa che prendevano le mie canzoni: strofa-strofa-ritornello, strofa-strofa-ritornello, struttura molto obbligata. Alle volte dava dei bei risultati, altre volte era molto faticosa e soprattutto poco vitale. E così mi sono inventato gli Zingari felici.

E’ stato un esperimento molto riuscito a quell’epoca, non avevamo un nome come gruppo, c’era ad esempio Roberto Costa, che oggi è l’arrangiatore di Lucio Dalla… [Roberto Soldati, chitarrista degli Zingari del ’75] mi fece sentire le parole non ancora complete e io cominciai a pensarci sopra…girare l’Italia in quegli anni con una proposta come quella degli Zingari felici permetteva di toccare con mano un entusiasmo, una spinta…s’incontravano dei personaggi incredibili, come dei santoni indiani, travestiti con la chitarra che giravano…c’era questa atmosfera di grande convinzione di coscienza di fare qualcosa per cambiare il mondo ”.

Danilo Tomasetta, sassofonista degli Zingari: “Claudio aveva in mente un lavoro diverso rispetto a quelli che aveva fatto fino a quel momento, cioè di collaborare con altri musicisti non soltanto per farsi accompagnare, non quando già il suo nuovo lavoro era già confezionato, ma durante la fase di creazione”. [6]

Gianluca Veltri, critico musicale: “quest’idea bellissima di riunire tutte le canzoni tra di loro, questi arrangiamenti spumeggianti e poi questa capacità che è stata raggiunta dopo di mettere, non in maniera ideologica, ma in maniera fresca, spontanea, il vissuto personale e il vissuto della piazza.” [7]

“Ho visto anche degli zingari felici” costituisce una svolta decisiva nello stile di Lolli, ma potremmo dire che si tratta un po’ di una svolta a sé, senz’altro una svolta fortunata perché questo album del ’76 tocca non solo il picco più alto di successo discografico, ma anche, e soprattutto, artistico. Non a caso se ne parla come del suo capolavoro più riuscito.

Dal 1975 al 1977, infatti, Claudio Lolli inizia una nuova fase della sua attività artistica, arricchendo gli arrangiamenti *** (specificare il lavoro di gruppo) con sezioni di fiati e percussioni e girando in tour con un nutrito numero di musicisti, un esempio che verrà poi seguito da altri cantautori.

Si tratta di un concept-album in cui avviene un completo scardinamento delle precedenti strutture presenti nella “triade”.

E’ un’altra strada, la matrice politico-sociale e anche filosofica è più forte e determinante.

Sempre presenti, una chitarra acustica e un sassofono ribelle con una certa dolcezza infinita prendono la via della libertà in questo disco-fiume che sembra non contenere mai battute d’arresto, si respira con una certa frequenza aria di piazza, concetto fondamentale nell’immaginario fortemente “compagnesco” tendenzialmente anarchico e apertamente rivoluzionario.

Tuttavia si deve evidenziare un palese contrasto tra testo e musica, eppure sia gli arrangiamenti non sminuiscono affatto l’aspetto concettuale legato ai testi e nonostante questo contrasto ci cui parleremo, a livello percettivo, questa discordanza risulta del tutto inesistente, anzi è costante un’armonia sopraffina.

Seppur sempre presente quel sentimento “zingaresco” fortemente radicato in tutto l’album, ci troviamo dinanzi ad un impasto sonoro estremamente raffinato, che non ha niente a che vedere con la piazza, con la strada e con le idee politiche che ne conseguono.

Facendo riferimento alla riedizione di questo album nel 2003 a cui in seguito ritorneremo ampiamente, sarà molto più “zingaresca” quella versione che quella originale, anche se il livello non sarà purtoppo il medesimo, né tanto meno superiore.

Generalmente è errato compiere questi confronti tra un album e una sua riedizione, ma non si può prescindere da queste considerazioni, a costo di essere retorici.

Relativamente all’album originale, le sonorità sono cittadine, quasi “neworkesi” oseremmo dire e Capodacqua è dello stesso avviso.

Tuttavia, il sassofono diventa una specie di personaggio autonomo che sembra vagare trasognato senza una meta, a tal punto che da solo riesce a rendere l’idea di libertà e quindi si affianca allo spirito dei testi. E’ come se lo “zingaro felice” fosse personificato dal sassofono stesso.

Questa è una mia teoria, può essere o meno condivisa.

Non possiamo tralasciare, nell’impegno politico-concettuale di Lolli, che l’idea di piazza è per egli fondamentale.

La piazza viene intesa come principale luogo di aggregazione giovanile, luogo dove il popolo può fare politica esprimendosi in modo unitario, la piazza è anche luogo di rivoluzione, infatti è anche sfondo di “Anna di Francia” : “Anna la piazza, la piazza, ti ama”.

Tuttavia non è mai stato facile per nessuno inquadrare esattamente la posizione politica di Lolli (situazione che lo diverte molto, come dichiarerà nel documentario interamente a lui dedicato di Salvo Manzone) e per questo motivo è stato escluso ideologicamente da tanti settori politici diversi.

“Anna di Francia” è l’emblema di questo spirito, così come “Piazza bella piazza”.

Riporto qui di seguito una parte di un piccolo brano che Paolo Capodacqua ha scritto in occasione della riedizione degli Zingari ricordando gli anni di origine.

 

IO E IL MIO AMICO MARIO

 

Autunno 1976.

Interno, giorno: la “cameretta” di Mario.

La finestra dà su una piccola piazza circolare: ”la piazzetta”.

La piazzetta è il nostro campo di calcio in scala (il calcetto lo abbiamo inventato noi), su quell’asfalto consumiamo (nel vero senso della parola) centinaia di “polacchine” ; seduti sui marciapiedi discutiamo di politica e di musica e ci innamoriamo delle ragazze.

Dalla provincia lontana guardiamo quello che succede fuori: a Bologna, a Milano, nella vicina Roma…

Siamo in quattro o cinque, di sinistra, pochi ma rigorosamente divisi: dagli anarchici agli stalinisti, passando per i radicali e gli autonomi.

Il nostro privato è, naturalmente, politico; ci incontriamo ogni giorno per cambiare il mondo, (poi ci dividiamo sul metodo e rimandiamo tutto al giorno dopo) e le ragazze delle quali siamo innamorati non lo sanno (e mai lo sapranno).

 

Autunno ’76.

Interno, giorno (pomeriggio)

Mario mette sul piatto Thorens un LP che ha appena acquistato.

La copertina è strana: ritagli di quotidiani a formare un carro.

Il titolo evoca, per lunghezza, quelli di Lina Wertmuller: “Ho visto anche degli zingari felici”.

L’autore è Claudio Lolli, mai sentito, non ci sono foto, ma apprezziamo la fascetta sull’angolo superiore destro della copertina: “Prezzo imposto Lire 3.500”.

Una bella “imposizione” per noi quindicenni con poche lire in tasca.

Nel frattempo il disco comincia a suonare, parte il sax.

Bellissimo. Un giro straordinario e inusuale per un cantautore, veloce e tagliente.

Quando arriva la voce nasale qualcuno commenta che somiglia a De Gregori, poi ci accorgiamo che il disco sta girando a 45 giri.

Rimettiamo da capo e commutiamo il selettore del piatto a “33”.

Ed è allora che parte “ l’attacco arioso del sax”, e la bellezza e l’intelligenza musicale di quell’introduzione ci lasciano senza fiato.

Poi arrivano la voce, le parole, i brani veri e propri: Agosto, Primo Maggio, Anna di Francia…

Alla fine dell’ascolto, nel nostro adolescenziale e selettivo Olimpo privato, (tra i De André, i Guccini, i De Gregori, i Genesis, i King Crimson, i Jethro Tull e pochi altri) accede unanimemente ad honorem Claudio Lolli.

Con una differenza, per noi che demarchiamo il confine tra gli amati cantautori e gli amati gruppi inglesi: la suite appena ascoltata può stare da tutte e due le parti!

E’ l’opera di un cantautore ma è anche musicalmente straordinaria.

Quell’opera diventa la colonna sonora delle nostre giornate, straduplicata su cassette Scotch C90 in modo da poterla ascoltare dovunque; rappresenta, dalla provincia lontana e bigotta, l’altrove fantastico dove vive la nostra gente, i nostri simili.

La piazzetta è ormai diventata Piazza Maggiore, e noi (con il nostro privato che è anche politico), pochi, sparuti e meravigliosi zingari a riprenderci “la luna la terra e l’abbondanza”, anche nelle partite a pallone, anche nelle interminabili sfide a risiko dentro la cameretta fumosa, con il sottofondo degli “zingari”… […]

 

Senz’altro un grande passo concettuale e stilistico in avanti rispetto il primissimo “Aspettando Godot”, da allora un’evidente maturazione è presente e incontrovertibile; la fusione del personale e del sociale è ancora più convincente, c’è meno intimismo e i significati tendono ad arrivare al grande pubblico, sempre mantenendosi nella sua personalissima ricercatezza poetica e abbandonando quel vago patetismo degli inizi che può allontanare alcuni palati, ma può allo stesso tempo avvicinarne molti altri.

E’ un Lolli più maturo, ma al picco del suo splendore universalmente riconosciuto; dopo avremo cambiamenti sempre più drastici, avremo quella che potremmo definire una post-maturazione.

Lolli con gli  Zingari poteva dire di aver trovato la formula, ma il suo spirito coerente evita di incorrere in scontate e furbastre ripetizioni di stile soltanto per non deludere un pubblico con cui un certo prodotto aveva funzionato.

Invece, fedele a se stesso, segue il suo percorso artistico affinché siano disoccupate le strade dai sogni

 

2.2 L’apice del successo lolliano

 

Fino ad oggi le recensioni parlano dell’album del ’76 come “il suo disco più noto, che contribuì nella canzone d’autore con concezioni melodiche innovative”, indicato insomma come il suo più alto risultato artistico e non a torto, bisogna però ovviamente considerare tutti gli altri dischi che ha inciso durante la sua lunga carriera, in cui ognuno ha una sua valenza in sé per sé.

Così Lolli costruisce una suite lunga un disco fatta di brandelli di canzoni, arrangiate assieme ad alcuni musicisti di un collettivo musicale bolognese.
È un disco che racconta quegli anni, unendo personale e politico, le stragi fasciste dell’Italicus e di Brescia (“Agosto”, “Piazza bella piazza”), ma anche difficoltà e fascino del rapporto con le “compagne” femministe (“Anna di Francia”, davvero una grandiosa canzone d’amore) o il lutto per la morte del padre (“Primo Maggio di Festa”), la speranza di cambiamento che unisce generazioni diverse (“Albana per Togliatti”), il punto di vista dei potenti (“La morte della mosca”). Ma soprattutto il sogno di una vita diversa, di un mondo possibile libero da lavoro, dovere e tradizione: quello degli zingari felici, i ventenni degli anni ‘70.
E tutto in un gioco di incastri e riprese, con un gioioso spessore musicale mai sentito in un cantautore definito in qualche modo “politico”.
Disco simbolo di un’epoca in cui tutto sembrava possibile, Bologna e l’Italia appena prima di quelle raccontate da Pazienza, raggiunge un vertice che Lolli ripeterà l’anno dopo con “Disoccupate le strade dai sogni” e che apre la strada ai connubi De André-Pfm e De Gregori-Dalla (1979), che uniranno canzone d’autore e ricerca musicale. Un punto di snodo fondamentale.

“Mi sono ispirato molto a quello che succedeva in strada, anche perché privato e pubblico, personale e politico si mescolavano molto volentieri”, così dichiara il cantautore.

 

  • Gli Zingari Felici, riedizione con “Il parto delle nuvole pesanti”.

 

Negli ultimi anni abbiamo avuto un vero e proprio “remake” dell’album di cui fino ad ora abbiamo disquisito ed è in questo modo che lo annuncia una delle tante recensioni che circolano sul web annuncia la notizia:

“Ha 27 anni il nuovo album di Claudio Lolli. E’ nei negozi “Ho visto anche degli zingari felici”, il nuovo album live di Claudio Lolli. Il disco è una versione completamente rinnovata di una suite del 1976, registrata nuovamente dal vivo durante i concerti che il cantautore bolognese ha tenuto in tutta Italia tra settembre 2002 e febbraio 2003.

In questa nuova avventura discografica, però, Lolli non è solo, ad affiancarlo sono il chitarrista Paolo Capodacqua e Il Parto delle Nuvole Pesanti, che hanno curato gli arrangiamenti dei dodici brani.

Prodotto e distribuito dalla casa discografica Storie di Note, l’album è stato pubblicato in doppia edizione: una standard al costo di 14 euro e l’altra a tiratura limitata e numerata a 18 euro, con allegata “1976 gli Zingari Felici 2003”, una raccolta di fotografie, testi ed immagini”.

Nonostante molte recensioni positive e (relativamente) molta pubblicità, credo che questo sia uno dei dischi peggiori di tutta la discografia che si possano ascoltare e questa non è soltanto una sentenza impressionistica, ma è anche ben motivata. Dopo aver ascoltato il disco del ’76, dove  da ogni brano e da ogni nota sfocia quello spirito che fomenta persino la nostalgia di avvenimenti non vissuti, in questa rilettura rigorosamente “live” e un po’ “fricchettona”, le recensioni usano il termine più politico e largamente eufemistico “no global”.

Ritengo sia un’operazione falsa, dettata da un progetto architettato dalla casa discografica.

Come sappiamo, l’originale album del ’76 rappresenta in qualche modo il capolavoro per antonomasia di Lolli, quindi ricostruendo quelli che potrebbero essere i calcoli imprenditoriali di un’etichetta, l’affiancamento dell’esemplare lavoro di tutta la discografia lolliana (s’intende nella sostanza delle canzoni) e della partecipazione di un gruppo, seppur quotato e seguito da un pubblico “alternativo” di giovani, come “Il parto delle nuvole pesanti”, vorrebbe risultare una formula vincente, ma si avverte sostanzialmente un lavoro molto lontano dal disco originale, quello spirito viene falsato e questa è la nota dolente della maggior parte dei remake, sia in campo musicale che cinematografico, insomma è come se si avesse a che fare con una buffa caricatura.

Se questo disco fosse nato così com’è senza avere antecedenti, probabilmente avrebbe avuto il suo perché.

L’emblema di questo progressivo snaturare si può intravedere nella versione di “Anna di Francia”, che nella sua versione originale era di impareggiabile poesia, adesso viene trasformata in una specie di tango-rock.

E dove prima lo spirito del concept album era vivissimo, con tutte le canzoni collegate fra loro, in questo disco si possono udire tra una canzone e l’altra applausi e urla del pubblico che dopo canzoni di particolare intensità suonano come un insensato dissacrare, se si intende il fluire di un concept album come rito sacro che sarebbe inopportuno interrompere.

Ma la colpa non è di Lolli, in fondo sta cantando e interpretando le canzoni di sempre, non è colpa di Lolli se il sassofono non piange e ride con la medesima anima degli Zingari del ’76 e se in alcuni pezzi si respira un’aria di Sanremo-rock o di Arezzo Wave in prima serata. Persino il pezzo “clou”, quello degli Zingari Felici, suona come un saltarello tinto di musica irlandese, colpi di percussioni e schitarrate gratuite.

Questa non è una considerazione isolata, tant’è che leggendo le opinioni del pubblico del web si possono riscontrare considerazioni simili, vorrei riportarne qualcuna.

E’ da sottolineare che sul web i blog si aggiornano di volta in volta, spesso le pagine vengono rimosse o modificate e non sempre è facile accertarne la provenienza e quindi, quello che conta è che si tratta di una voce del popolo come tante, una delle tante voci che si potrebbe ascoltare prima di un concerto di Lolli, pescata tra le chiacchere di lolliani e non.

E’ per questo che non riporto in nota l’indirizzo da cui è tratta.

L’ho sentito la prima volta. Non mi è piaciuto. Salvavo solo “Gli zingari (Intro)”. Pollice verso per “Agosto” e “Primo maggio”, ma soprattutto per “Anna di Francia”. Poi l’ho risentito, distrattamente, mangiando. Già meglio. Ma non mi è bastato. L’ho rimesso ancora. E iniziava a scorrere, ma con qualche sacca di resistenza. Poi non ce l’ho fatta più e ho messo su il vecchio vinile traslato in cd.”

Il risultato è che si avverte la pulsione a ritornare al vecchio disco, nonostante si tratti dell’esecuzione delle medesime canzoni.

Seguono altre opinioni di rimpianto del tipo “la vecchia Anna era proprio tutta un’altra cosa”, riferendosi ad “Anna di Francia”.

Non si vuole fare certamente un discorso retorico che vuole alimentare gli stereotipi sempre a vantaggio di tutto ciò che è antecedente, ma nonostante numerose recensioni positive, la fruibilità d’ascolto e la capacità di suscitare emozioni ne rimane menomata, soprattutto per i lolliani affezionati e puristi.

Nelle numerose recensioni positive si parla di una continuazione attualizzata del concetto di piazza, della folla giovane e viva, di un progetto affascinante e interessante, come un superamento di quell’immancabile intimismo, un intimismo a cui un lolliano non può non essere legato.

Tutto sommato, va riconosciuto un grande pregio a questo disco, la possibilità di farsi ascoltare anche dai ventenni che seguono il Parto e quindi di stimolare il pubblico giovane e meno giovane ad accostarsi alla musica di Lolli, passata e recente.

 

CAPITOLO TERZO

 

Lolli, una svolta “extraniante”

 

  • Extranei, gli anni ottanta, l’inizio del secondo grande periodo

 

Perché parlare di due grandi periodi? Abbiamo parlato di “triade” come l’area stilistica che riguardava i primi tre dischi, quelli comunemente definiti malinconici, tuttavia anche dopo questa classificazione, vi sono altri album che comunque mantengono dei riferimenti stilistici con gli album precedenti, potremmo dire con parole popolari che grosso modo fanno parte del “vecchio” lolli, in senso positivo.

Tutto questo nonostante le svolte significative del ’76, quella emblematica, e del ’77, dove già si presagiva l’avvio del secondo grande periodo, che si potrebbe individuare a partire dell’album “Extranei” del 1980.

E’ un periodo di declino commerciale, Lolli c’è ma non si vede e non si sente, i dischi fanno fatica ad uscire, nella maggior parte rimangono invenduti, si avverte un processo che avvia il cantautore verso una sorta di momentaneo oblio.

E’ passato di moda, gli anni Ottanta e la musica di quell’epoca lo stavano annegando nell’idea di passato.

Lolli si sente un “extraneo”, probabilmente e fortunatamente lo è sempre stato e lo è ancora, ma la sua voce in capitolo non tace, non interrompe il suo canto, nonostante la crisi di una certa canzone d’autore che investe gli anni Ottanta.

Da questo periodo in poi, le promozioni discografiche saranno quasi inesistenti e persino la distribuzione risulterà scarsa, tanto che molti album saranno introvabili nei negozi.

Soffermiamoci sull’album “Extranei”, che rappresenta l’incipit di questo grande e precario periodo.

E’ un disco cupo, pessimista, nichilista, autolesionista, visionario, allucinante, poetico e abbastanza originale. Questo lavoro lo fece addirittura debuttare ad “Azzurro” nel 1981 col pezzo “Come un dio americano” ritmato e orecchiabile, sperando che il grosso pubblico si accorgesse di lui, ma non fu così. Non avrebbe mai potuto passare di buon occhio un capellone barbuto in quel tipo di festival.

Molto difficile infatti far digerire al grosso pubblico le sonorità di quest’album avanti anni luce dai colleghi cantautori, che presentava soluzioni ritmiche nuove, aperture jazz, i giochi di parole e la costruzione stessa dei brani, sempre originale ed imprevedibile.

Spicca in questo disco la spumeggiante “La canzone del principe rospo”, una favola surreale e cantata quasi fuori metrica con mille invenzioni linguistiche e letterarie ad impreziosire il brano. Una specie di “concept-album”, come si usava allora, un discorso aperto sull’ incomunicabilità o l’impossibilità di capirsi tra gli esseri umani.

E’ altresì significativa la canzone “Non aprire mai”, coi suoi versi cantati su sonorità “quasi” solari:

“C’è come una tela di ragno diceva, in cui mi sento prigionera, ho sulla pelle qualcosa o qualcuno che senza stancarsi mai ci lavora, mi copre di fili d’argento e mi lascia da sola a camminare in mezzo alla gente, vivere in fondo non è necessario, ma certo non è sufficiente. Ed è per questo, diceva, che io per me preferisco non dover scegliere mai, l’inizio o la fine e nessuna storia, la serenità non sa convivere con la memoria. Non mi sono mai conosciuta, diceva, e scommetto che non mi conoscerò, non saprei mai rigirarmi nei miei angoli ottusi, nei miei angoli acuti, preferisco svegliarmi per caso di notte e poi sparire in bocca al metrò, io preferisco i mesi agli anni, le ore ai giorni, i secondi ai minuti… “

Evocativa e trasognante. Arriva poi “double face” una sorta di analisi-accusa di un rapporto martoriato padre-figlio, diviso e tormentato come, da adolescenti, è giusto che sia.

Insomma, un album piuttosto inquieto.

A proposito di questo disco, tra le partecipazioni illustri dobbiamo ricordare Andrea Pazienza, uno dei più famosi fumettisti italiani, che ne ha disegnato la copertina.

 

  • Un’anarchia stilistica sconvolgente

 

Con l’album “Extranei”, oggi come allora, praticamente introvabile, ci avviamo ad un’anarchia stilistica sempre più sconvolgente.

Ci appare, questo, come un disco estremamente allucinogeno, le sezioni ritmiche sia delle percussioni che del parlato sono spesso fortemente sghembe e irregolari, una pioggia irrefrenabile di sincopi invade il tipico recitar cantando; suoni artificiali ci appaiano come fossero provenienti da una sorta di universo siderale, del tutto “extraneo”, per quanto riguarda lo stile, al panorama italico consueto dell’epoca e non solo.

Ovviamente, se l’utilizzo di “suoni artificiali” era comunissimo in quell’epoca, non lo era affatto invece per la canzone d’autore di nicchia, più legata alla tradizione cantautorale.

Si avverte quindi questo contrasto tra un linguaggio che stava diventando comune nella musica pop di massa e le caratteristiche di una musica per certi versi astrusa e spigolosa.

Riverberi alla voce risultano spesso ipnotici, è il caso de “Il ponte”.

Non molti apprezzano questo disco, lo ritengono mediocre perché è spigoloso e quindi non risulta affatto facile all’ascolto, mentre altri lo ritengono fantasioso nel suo intellettualismo e da qui ironicamente la freddura di un blogger: “non tutto il Lolli viene per nuocere”.

Queste sono opinioni raccolte nel web, spulciando tra i blog del grande pubblico.

Gli arrangiamenti sono spesso “saltellanti” e tutt’altro che essenziali o scarni, anni luce lontani dagli album degli esordi.

Tuttavia non ci sono sovraccarichi di suoni inutili, si può avvertire un certo equilibrio, nonostante il desiderato effetto di sovraffollata confusione.

Basta empiricamente ascoltare il disco nella sua globalità per constatare la validità immediata di questa affermazione, sarebbero inutili esempi astratti, l’ascolto è il migliore degli esempi.

 

 

  • Guccini, Ciampi e Lolli: percorsi a confronto

 

Ci sarebbero tantissimi autori di riferimento, non solo cantautori, ma anche letterati e filosofi che bisognerebbe affrontare per avere un quadro assai ampio ed esaustivo dell’opera di Lolli.

Tuttavia, bisogna almeno riferirci a due cantautori che probabilmente hanno rappresentato molto per la formazione di Lolli: Francesco Guccini e Piero Ciampi.

Guccini potremmo vederlo come il padre, lo scopritore, il cantautore a cui tutti ci si riferisce e a cui si stenta a paragonarsi come per non cadere in una sorta di blasfemia, in quanto si ha spesso verso Guccini un timore reverenziale, relativamente dal punto di vista della canzone italiana, paragonabile al sacro e all’intoccabile, quindi qualsiasi confronto risulta sconveniente.

Per sottolineare questo importante rapporto, dobbiamo tuttavia ricordare che Lolli scrive diverse canzoni che verranno interpretate da Guccini.

Bisogna precisare che se Guccini ha significato molto per Lolli, sia dal punto di vista musicale che umano, non si può parlare assolutamente di mero “manierismo”.

E’ quindi da demolire una recensione dell’epoca di Enzo Caffarelli che accompagnò negativamente l’uscita del primo disco del ‘72.

Questa recensione che voglio qui riportare, oggi è ampiamente criticata.

[8]E’ piuttosto strano come con un vasto patrimonio tradizionale e con tentativi così numerosi, l’Italia abbia partorito negli ultimi dieci anni tanti cantautori sufficientemente apprezzabili, ma un solo indiscutibile genio e poeta, Francesco Guccini.
Ed è a Guccini che Claudio Lolli si avvicina per formule musicali, per gli arrangiamenti scarni e semplici (che qui divengono comunque semplicistici) e per l’impegno ricercato dei testi. Con la differenza che quanto in Francesco è riflesso, implicito e pregnante di un provincialismo culturale che in fondo è proprio e tipico di quasi tutti i grandi artisti del nostro paese, in Claudio è denuncia esplicita e forzata, costantemente sull’orlo del luogo comune e di quella protesta politica che fa di tanti talenti degli uomini “impegnati” ma non degli artisti. E quanto in Guccini è spontanea descrizione di moti del cuore e di paesaggi naturali, in Lolli è frutto di esperienze personali nelle quali la costante ricerca di un’assoluta sincerità merita sicuramente una lode, ma risente qua e là di un notevole sforzo espressivo.
Ciò non significa affatto che il discorso artistico di questo giovane cantautore sia sbagliato o, quel che peggio, sia assente. Tutt’altro. Solo che non c’è bisogno di scomodare Guccini, come taluni hanno fatto, per paragoni dai quali nessuno dei due può trarre giovamento alcuno. In fondo Lolli è un personaggio estremamente sincero, e come tale non va considerato secondo a nessuno: però forse non basta essere se stessi per essere dei grandi artisti.
Claudio deve amare profondamente Samuel Beckett se ha intitolato il primo brano e l’intero album “Aspettando Godot”. Oppure ha trovato estremamente giusto, per ciò che complessivamente vuol dire con questa sue esperienza discografica, la satira del commediagrafo irlandese, per entrare nei panni un po’ scomodi di Vladimiro e di Estragone a confessare l’inutilità della propria esistenza nell’attesa di qualche cosa di superiore. “Aspettando Godot” è il brano più complesso e più valido dell’album, seguito a ruota da “Borghesia”, musicalmente un buono folk italiano, con un quadro davvero tragico di certa borghesia, poi “L’isola verde” e “Angoscia metropolitana”. Le altre sembrano le poesie d’amore scritte nella prima giovinezza e musicate con l’ombra di Luigi Tenco in mente.
Il tema fondamentale resta l’inutilità della vita: il risultato cui, sfruttando i suoi principi marxisti, Lolli giunge conseguentemente attraverso un’amara ironia della vita con una continua, elementare ma significativa, confessione.
Ciò che resta di questo disco è l’analisi psicologica del personaggio, la vicenda dell'”uomo” non in termini astratti e generali come hanno fatto sinora troppi gruppi italiani con testi talora infelici, ma composta con un mosaico di ricordi, impressioni e sentimenti personali; e restano in mente i brani più belli, da canticchiare scoprendovi magari, inaspettatamente, la problematica che qualcuno di essi pone. La strada è quella giusta: ricordiamoci però che ci sono altri talenti da scoprire, senza accontentarci di figure mediocri o di doppioni. Lolli non è fortunatamente né l’uno né l’altro, ma non possiede neppure l’altezza lirica e la maturità dei migliori. Un esordio in ogni caso degno di menzione.

 

Niente di più fuorviante, quindi.

E’ la storia, il suo percorso, anzi i suoi innumerevoli percorsi ed evoluzioni che dimostrano ampiamente il contrario. Ma questa recensione è antecedente agli  Zingari Felici e a tutto quello che ne consegue fino ad oggi.

Dobbiamo guardare a Guccini più come a una figura musicalmente e umanamente paterna e nulla di più, il percorso formativo di Lolli è piuttosto autonomo, personale e spontaneo.

Abbiamo quindi accennato al riferimento più noto e illustre che si possa fare nell’ambito della canzone italiana d’autore.

Se da una parte c’è Guccini come grosso pilastro di riferimento, dall’altra c’è Ciampi.

Chi è Piero Ciampi?

E’ un cantautore livornese alquanto bizzarro e non molto noto. La sua carriera non è delle più regolari, interrompe infatti gli studi di ingegneria e si trasferisce a Parigi.

I primi dischi li incide, a cavallo tra il 1960 ed il 1961, con il nome di Piero Litaliano, per l’etichetta Bluebell. Successivamente passa alla CGD. Esce il suo primo LP con risultati negativi sia in termini di pubblico che di critica. Fa una breve esperienza come direttore artistico della Ariel che chiude nel 1965. Successivamente si avvicinerà all’RCA. Tra il 1971 ed il 1973 escono due LP, uno proprio ed uno con una raccolta di canzoni per la giovane cantante livornese Nada. Nel 1975 esce per la RCA una antologia contenente brani dei suoi precedenti Lp con due pezzi inediti e, successivamente, un nuovo album doppio. Con gli anni aumenta sempre di più la sua conflittualità con il mondo musicale italiano che, d’altro canto, contraccambia con distacco e diffidenza. Da ricordare la sua apparizione in Rai, nel 1977, con lo special “Piero Ciampi, no!”, mandato in onda in orario impossibile dove Piero appare visibilmente ubriaco, Lolli lo definisce infatti bonariamente “un ubriacone”.

Sarà mandato nuovamente in onda una settimana dopo la sua morte, avvenuta il 19 gennaio 1980.

A Ciampi, Lolli dedica un pezzo molto significativo “I musicisti di Ciampi”, dove espone la sua teoria sulla distinzione tra musicisti e orchestrali che esporremo nell’intervista.

Si possono avvertire diversi parallelismi tra Ciampi e Lolli, anche se non si possono assolutamente compiere similitudini semplicistiche.

Entrambi i cantautori seguono una via spontanea di libertà senza compromessi, entrambi amano il buon vino come spirito di zingaraggio e bonaria perdizione.

Entrambi sono relativamente poco noti ed entrambi, soprattutto, hanno un copiosissimo repertorio di canzoni che presentano la fondamentale caratteristica di non essere scontate, banali, tutt’altro, questo sia nei testi che nella musica.

Quindi, si potrebbe dire che Lolli stia al centro tra questi due poli opposti di notorietà ufficiale, nello schema concettuale: Guccini – Lolli – Ciampi.

Naturalmente questa è solo un’ipotesi che non va presa come un formulato scientifico, ma come un suggerimento teorico.

 

 

CAPITOLO QUARTO

Lolli oltre Lolli

 

4.1 Lolli oltre gli anni ottanta

 

Se gli anni ottanta sono stati per Lolli come degli anni-killer, gli anni novanta potremmo definirli anni di nebbia e di oblio.

Se già quindi le presenze negli anni ottanta cominciavano a subire duri colpi, negli anni novanta le sue presenze divengono sempre più diradate, sono gli anni in cui la sua professione di insegnante si fa solida, tuttavia egli continua a scrivere, ma probabilmente nessuno lo immaginerebbe perché ormai nessuno ci pensa.

Dovremo aspettare dal duemila in poi per avere un ritorno alle luci della ribalta, questo grazie anche a Paolo Capodacqua.

Oltre gli anni ottanta abbiamo per la maggior parte dei “mescoloni”, ovvero delle raccolte di vecchi brani proposti e riproposti, fatta eccezione del rilevante album di inediti del 1997, “Intermittenze del cuore”, ma siamo già alla fine degli anni novanta.

Una cosa importante da considerare è che gli anni ottanta-novanta sono anche gli anni in cui i media lo trascurano più di quanto non avevano già fatto precedentemente.

E’ da precisare, che nonostante in questi lavori oltre il Lolli conosciuto, non viene mai trascurata la tematica del sociale e non si disdegna la scelta di introdurre delle canzoni d’amore.

 

 

4.2 La scoperta dell’America

 

Anno 2006: Lolli torna alla riscossa.

Forse questa riscossa rappresenta l’apice del riemergere che abbiamo visto dal 2000 in poi, o forse la gloriosa fine, non possiamo saperlo.

Da Lolli c’è da aspettarsi di tutto, può concludere qui brillantemente la sua misconosciuta e mastodontica carriera, oppure riemergerà ancora magari novantenne con un album inedito strepitoso e più che stralunato.

Considerazioni e ipotesi a parte, è indiscutibile che l’uscita di questo disco sia un evento assolutamente eccezionale.

Nell’economia dei brani, moltissimi sono quelli inediti in questo album ed è sicuramente un Lolli nuovo e più che maturo.

Dobbiamo ricordare che passano lunghi anni di silenzio dall’effettivo rilancio, ovvero nel 2000 con “Dalla parte del torto”.

Certo, nel 2003 abbiamo avuto come parentesi la famosa rilettura degli Zingari con Il Parto delle Nuvole Pesanti, ma niente a che vedere con un’effettiva produzione di brani inediti di spirito genuinamente lolliano.

Bisogna ricordare che, come è solita consuetudine del personaggio Lolli, mai i giudizi nei confronti del suo prodotto artistico sono unanimi, tutt’altro.

Quindi, se nel sito della “Brigata Lolli” (interamente a lui dedicato), possiamo trovare soltanto delle cronache emotive, mentre in altri siti si possono leggere anche recensioni poco elogiative.

Vorrei citare alcune parti di una recensione di Luca Barachetti del 29 giugno 2006 sul sito di musicboom.it; sta a provare la non unanimità di giudizio il fatto che molti utenti hanno contrastato apertamente le sue affermazioni.

Accenni jazz, blues, folk, ma non un’idea musicale minimamente importante, non un arrangiamento che invece di travolgere con eccessi di tastiere ed insistiti ghirigori di sax lasci un segno ed esalti il resto (escluderemmo dal mazzo solo “L’eterno canto dell’uomo”, ma per il rotto della cuffia), non uno spunto che faccia almeno sperare in uno sforzo che non sia unicamente improntato alle parole. (…)

Certo, sappiamo tutti da dove viene Lolli e all’incirca ci immaginiamo anche dove andrà in futuro. Ma alla fine è proprio questa la questione: nell’anno musicale duemilasei, queste canzoni, pur dai testi belli ed eruditi senza risultare pedanti, pur dall’impegno verace e non privo di sdegno e disincanto, risultano reazionarie, antistoriche, immobili. La “rinfrescata” con il Parto non ha insegnato niente. Fate largo ai nuovi.”

Insomma, come si può notare, una recensione in gran parte demolitrice , tra l’altro definire Lolli un reazionario è più che un sacrilegio, quasi un colmo paradossale; tuttavia, bisogna fare una considerazione obiettiva che riguarda l’impostazione della linea melodica che ormai è quasi inesistente, il recitar cantando ormai ha preso piede e la voce di Lolli ha sempre un bellissimo timbro pur nella sua non convenzionalità di sempre, ma è più asciutta di quella dei vecchi tempi.

Se si è fermamente convinti che la sua voce sia piena di ragni e se egli come prodotto non sia venuto un granché[9], allora bisogna soffermarsi e capire, leggere fra le righe della sua sottile autoironia innata.

Nell’intervista a Paolo Capodacqua ci soffermeremo su questo aspetto autoironico, soprattuto sul palco, questo goliardico aspetto di una compiaciuta cialtroneria.

 

A trent’anni esatti dagli Zingari (7 aprile 1976), esce il disco su cui ci stiamo soffermando. Così come gli Zingari, anche questo è un album concept, a tema, che riflette sulla difficile contemporaneità sociale e sul destino di certe “scoperte” destinate ad influire sulle nostre vite in maniere differenti e con diverse sensibilità. Sogno dopo sogno e tappa dopo tappa, Lolli descrive il mondo che vede e i suoi bisogni d’amore, “bisogni orizzontali” dal titolo della canzone “bisogno orizzontale”, il Nuovo carcere paradiso in cui ci troviamo a vivere osservati da un dio che ci odia e ci ama tutti con lo stesso pathos: il dio della perplessità e dell’oblio.

Un mondo attraversato comunque da eroi come quello raccontato in Poco di Buono o nella splendida Le rose di Pantani, probabilmente il brano più emozionante del disco. La storia del pirata raccontata con grande dolcezza ed afflato lirico e con una disperata voglia di verità.

Segue l’uscita di questo disco un’insieme di date per quanto riguarda le esibizioni dal vivo, relativamente numerose, che Lolli rispetta con zelo, nonostante la sua professione d’insegnante, nonostante la famiglia, nonostante non abbia più vent’anni.

 

4.3 Lolli scrittore

 

Perché un cantautore dovrebbe iniziare a scrivere racconti e poesie?

In qualche modo lo fa già e l’ha sempre fatto attraverso la forma canzone, ma la letteratura, nel caso specifico della biografia di un cantautore, può rappresentare sia un’estenzione a posteriori, sia ovviamente l’humus da cui germoglia tutto.

Se Lolli è un accorato seguace della libertà, produrre letteratura non può essere che una dimostrazione di questa evidente osservazione.

Inoltre, non ci si dovrebbe stupire più di tanto, in quanto Lolli è un laureato in Lettere che si occupa giornalmente di letteratura per via della sua professione di insegnate di italiano e latino.

Inoltre, bisogna ricordare che nella letteratura ci si può avvelere di un forte senso di onnipotenza e di conseguenza di libertà, mentre nella produzione della musica ci si deve scontrare con decine di persone ed essere  filtrati di conseguenza.

Non ci sono restrittivi limiti di sintesi, ma si può ampliare a piacimento una descrizione, un concetto, un’analisi di un personaggio.

Due sono le raccolte di racconti scritte da Lolli: “Nei sogni degli altri”, per la Marsilio nel 1995 e “Giochi Crudeli” per la Transeuropa nel 1990.

Inoltre abbiamo “L’inseguitore Peter H.” che è contenuto in Giochi Crudeli.

Il linguaggio usato in questi racconti è molto lineare, ma mai sciatto, lo stile è piuttosto personale e una lettura attenta rivela grandi metafore sull’umanità.

Dove c’è della volgarità, è sempre contestualizzata, mai gratuita e insensata.

Tuttavia, nonostante quest’apparente semplicità del linguaggio, che risulta molto felice, spesso elegante e immaginifico, è un tipo di scrittura che richiede una fortissima attenzione e sforzo nel comprendere e leggere oltre, altrimenti si rischia di precipitare in una confusione legata ad una mancanza di chiarezza.

Ne “Nei sogni degli altri” si può trovare una galleria di personaggi dove ognuno viene analizzato ne suo profondo, quasi psicanalisticamente.

Nel racconto “Cucina intima” , parlando di Sergio (il protagonista), scrive “[…] Nessuna precauzione da prendere. Appuntava questi pensieri, voleva scrivere precauzione, scrisse preoccupazione”.

Un errore verbale che può essere casuale non è mai casuale nella psicologia di un personaggio, come un gesto non è mai casuale e può essere amplificato a dismisura per essere poi analizzato in modo rilevante.

Un viaggio nell’umanità delle nevrosi e del quotidiano, dove un elemento rimanda ad un altro e più si è capaci di leggere sopra le righe, più si troverà un significato

misteriosamente lontano.

Queste caratteristiche di analisi di ciò che ci circonda saranno portate alle estreme conseguenze nella raccolta di poesie Rumore Rosa.

Tuttavia, in questo caso, si assiste a un fenomeno molto più impressionistico e legato all’irrazionale, ma non scindibile dalla sfera strettamente privata.

Durante varie intervista Lolli chiede perdono per questa piccola raccolta poetica,

 

 

 

CAPITOLO QUINTO

Interviste e performance

 

5.1 Intervista a Claudio Lolli

 

Siamo in compagnia di Claudio Lolli, da molti considerato “il maestro” di un certo tipo di canzone italiana, certamente una canzone di nicchia che si caratterizza per la sua profondità e introspezione nei testi – pregni di significato, ironia e lontani da ogni banalità o mero intrattenimento – e  nella ricercatezza della musica, sempre in evoluzione, dove come i testi sono poesia, lo è anche la musica. Gentilmente ha accettato di rispondere alle nostre domande relative al valore del suo percorso artistico, ma anche a molte nostre semplici curiosità, mai superflue, si spera, che ci aiuteranno a capire ancora di più l’artista studiato.

 

–        Ti va di raccontare come hai vissuto il pre-esordio, quali erano le tue speranze, quale idea avevi della sua carriera cantautorale e soprattutto come desideravi fosse l’impatto della tua musica e in particolare dei tuoi testi nei confronti del pubblico? Magari soffermati anche sulle esperienze vissute all’Osteria delle Dame.

– Sono cinque domande…(ride)…ti racconto…c’era questo luogo creato da Francesco Guccini che era l’Osteria delle Dame, anche lui era molto giovane…mi ricordo, il periodo era quello di Radici, penso fosse il Settanta circa…questo locale molto bello al centro di Bologna…si scendeva, era una specie di grotta, di cripta…sabato sera, dopo lo spettacolo ufficiale – tra virgolette, era una cosa sempre molto cabarettistica, simpatica e semplice – c’era una sorta di spazio libero…il palco libero: chi voleva esibirsi saliva e si esibiva per una decina, una ventina di minuti…e io ci capitai un sabato sera con fidanzata bionda, chitarra e giacca di montone, cantai quattro, cinque canzoni – canzoni presenti nel primo album? – Sì, sì, tutte presenti nel primo album, una sera c’erano…siccome era stato pubblicato “Radici” da poco, stava andando molto bene anche da un punto di vista di vendita, commerciale, questa è una cosa che non sempre succedeva sempre con i cantautori, c’erano anche i suoi manager della Emi che mi ascoltarono, rimasero colpiti e vollero organizzare subito un disco, un contratto, cose del genere. Non ho dovuto bussare a molte porte, anzi per il mio carattere non avrei bussato mai a nessuna porta, mi è capitato un po’ così…colpo di culo, fortuna…penso invece che oggi sia terribile invece…insomma,da questo è nato tutto, abbiamo preso accordi, siamo andati a Milano con Francesco, abbiam fatto in due o tre volte questo “Aspettando Godot”, ho solo cantato e suonato la chitarra, è stato arrangiato da altri musicisti…tutto questo insomma, forse era una delle cinque domande…

 

–        Hai impiegato molto tempo e molte energie per trovare un valido e fedele collaboratore come Paolo Capodacqua?

 

Sì, sì, questo sì veramente perché…i musicisti…Bologna è una terra veramente piena di musica, piena di musicisti, però vorrei stabilire una differenza tra musicisti ed orchestrali. Forse Bologna è una terra piena di orchestrali…gli orchestrali sono quello che suonano con te perché vogliono essere pagati, che è giusto; i musicisti sono quelli che suonano con te perché vogliono essere pagati e perché hanno il piacere di farlo e amano, forse non proprio amano, almeno capiscono il progetto che tu hai e la musica che stai facendo…e interpretano.

Io ho avuto nella mia carriera molti orchestrali e pochi musicisti, qualcuno sì, Capodacqua è uno di questi.

 

– Qual è il disco che senti maggiormente vicino alle tue attuali corde e invece quello che in qualche modo sente più distante?

 

No, non posso rispondere a questa domanda…sarà retorico, però sono come dei figli – la dico sempre questa cosa dei figli…c’è un mio amico che componeva musica, ad un tratto ha smesso di curarli questi figli, allora dico sempre: hai ucciso i tuoi figli!- (ride) – Una cosa veramente crudele, poi queste composizioni sono finite nel dimenticatoio – No, sai, sono tutti diversi, si qualcuno è riuscito meglio, qualcuno è riuscito peggio, però non ne eliminerei nessuno e non ne priviligerei nessun’altro. – Di solito c’è la tendenza a sentirsi più attaccato alle ultime produzioni, rispetto a quelle del passato? No, io non rinnego assolutamente nulla…ecco, possiamo parlare di tecnica, alcuni dischi sono tecnicamente migliori, alcuni “suonano” meglio, sono meglio organizzati, io ci ho messo sempre la stessa passione con le canzoni…altre son riuscite meglio, alcune sono un po’ più retoriche, non lo so…io ho scritto duecentocinquanta canzoni, non è che sono tutte allo stesso livello…però nessuna la butto via…

 

Come recita il testo di una tua canzone, com’era l’amore ai tempi del fascismo?

 

– Beh, l’amore ai tempi del fascismo mi dava l’idea di questa cosa molto controllata dal punto di vista della vita delle persone in cui l’amore è una sorta di trasgressione, l’ho scritta pochi anni fa questa, anzi, se posso dirti una cosa, l’ho scritta in quel tavolo lì ( mi indica un tavolo dietro la vetrina in un noto bar di Bologna). In questa società oppressiva, il fascismo, si parla dell’amore come, spero, leggera metafora di ribellione, rivoluzione a livello personale. E’ come se essere innamorati, fosse una trasgressione e potesse creare dei problemi.

 

–        Come nasce “Quanto amore”, contenuta nel tuo primo album degli esordi “Aspettando Godot? Personalmente non ci vedo tristezza, ma un’ironia infinita, è così o sbaglio completamente?

 

Tristezza no, forse nemmeno ironia. Io direi una sorta di consapevolezza della condizione terribilmente difficile dell’adolescenza.

– (frase non detta durante l’intervista) In realtà questa canzone è estremamente malinconica, ma come preciserà Lolli nel documentario di Salvo Manzone e, “la malinconia è la prima forma di conoscenza del mondo”. –

 

–        Negli arrangiamenti dei dischi prodotti dalla Emi, quanto è stato importante il tuo apporto, ovvero, hai avuto mai delle forti controversie a tal proposito?

 

No, controversie no, però ero talmente giovane e ingenuo che non mi rendevo neanche conto di cosa fosse un arrangiamento, quindi il primo disco l’ho suonato tutto io con la chitarra e hanno aggiunto le altre tracce. Tra l’altro il bassista era Tavolazzi (Ares) e il batterista Bandini (Ellade). Io non ho seguito il lavoro, abbiamo lavorato in sessioni diverse.Il secondo invece è stato una sorta di anarchia totale,il terzo un più arrangiato da me dal mio chitarrista che allora era Roberto Picchi e con Ettore de Carolis che abbiamo fatto delle discrete invenzioni sonore.Non c’era un progetto musicale, ma un progetto poetico, quindi questo rende i dischi da un certo punto di vista deboli e da un altro forti.

 

 

  • Qual è la tua idea di successo nel campo della musica, ovvero, come ti sei rapportato con questa idea durante il tuo percorso?

 

Credo di dire la verità nell’affermare che non avrei bussato a nessuna porta. Il primo disco è nato nello studio di Francesco (Guccini), è stato fatto e credevo che fosse finita lì. Quando mi hanno ritelefonato, dicendo: beh, allora andiamo avanti…francamente non me l’aspettavo. Mi hanno chiesto se avevo delle altre canzoni, ho detto, hai voglia, ne ho scelte un po’, d’altra parte i cassetti sono sempre pieni, però bisogna sceglierle accuratamente.

Invece col quarto, gli Zingari felici, ho cominciato ad avere un po’ di successo, di quello vero insomma, ho venduto centomila copie, abbiamo fatto un sacco di concerti, ecc e ho scelto subito un’altra strada e questa cosa è sparita, ma intendo il successo come una mia felicità di scrittura, quella con gli alti e bassi di trenta e passa anni di carriera,credo di averla mantenuta. Quello è il successo. So che non farò concerti negli stadi e sono ben felice, so che non farò il sabato sera alla televisione e sono ben felice di questo, quindi io devo dire, a questa età sono soddisfatto della mia produzione. Mi sembra un grande successo essere riuscito a pubblicare tante cose, vendendo così poco e scrivendo così bene.

 

–        In un corso universitario mi è capitato di analizzare la psicologia di un musicista (in quel caso era Beethoveen) – eh, non ci allarghiamo!- c’è un sogno ricorrente che occupa la tua immaginazione notturna?

 

Sono sogni erotici, mescolati a sogni di volo, come uno staccarsi dalla terra. Sogni che non finiscono benissimo. Io amo molto il mondo e probabilmente questi sogni significano il desiderio molto contrapposto di penetrare il mondo e distaccarsene. Non ho particolari ossessioni. Dormo, poco, ma riesco a dormire abbastanza bene.

 

–  Passando alla tua vita professionale, come sappiamo, oltre ad essere un affermato cantautore sei anche un professore di liceo; la scelta di questa professione l’hai sentita più come una scelta obbligata o una scelta irrinunciabile? Ovvero, come ti districhi tra l’arte e la professione?

 

Guarda, irrinunciabile no. All’inizio forse un pochino sì.

Io ho vissuto di musica per parecchi anni,più di dieci anni e ho guadagnato anche bene, però sono uno che spende molto, cioè ho molti vizi e alla fine gli anni ottanta craxiani hanno ammazzato il mio tipo di musica. Quindi io mi son trovato ovviamente un po’ in difficoltà,per poche centinaia di migliai di lire dovevo accettare delle cose abbastanza umilianti; siccome ero laureato in lettere, ho tirato fuori questa cosa, ho vinto un concorso e ho trovato molta più libertà. Perché se qualcuno mi telefonava e mi diceva,non so, vieni a Salerno al congresso di Alleanza Nazionale, che allora non c’era, potevo dire di no. Quindi ho fatto “le marchette” per un anno, poi mi son stufato. Ho cercato di avere un mio margine di libertà,combinando anche questo lavoro con l’altro, cioè continuando a suonare però senza avere il fiato sul collo.

Gli anni Ottanta sono stati molto duri, ero ancora giovane, ma ho sofferto un po’ questo calo d’interesse per il mio tipo di musica, adesso sono molto sereno.

 

–  Nel tuo percorso artistico, che ruolo hanno avuto le donne?

 

(Ride) Non posso dirlo, sono sposato.Passiamo avanti, ti prego…

 

–  Ci sono stati dei momenti in cui ha pensato di abbandonare le sue occupazioni artistiche e magari smettere di sognare, occuparsi quindi solamente delle incombenze quotidiane, abbandonare i sogni per una realtà più piatta?

 

No, abbandonare no, però negli anni ottanta hanno iniziato con le discoteche, musica disco, cassa in quattro,tutta un’altra cosa, tutta una palestra musicale differente.Io non c’entravo nulla, sono passato proprio di moda, mentre alcuni miei colleghi, Guccini, De Gregori, riuscivano a mantenere il contatto per il loro modo di porsi,io non ce l’ho fatta, sono proprio uscito dal gioco però sono rientrato, un gioco piccolo, di nicchia, come dici tu.

 

– Come sappiamo, oltre ad essere un professore e un cantautore sei anche uno scrittore. Come ti vede in questo ruolo? Ci sono dei progetti letterari ben definiti? Inoltre, potresti accennare brevemente alle tappe fondamentali del tuo percorso letterario che riguarda i tre romanzi che hai scritto? A parte Rumore Rosa che è senz’altro più noto (e maggiormente reperibile) rispetto agli scritti sopracitati.

 

Sai, posso dirti questo, quando faccio musica, scrivo il testo, le partiture, le armonie, se ho qualche idea scrivo dei riff, delle frasi musicali,ecc. Poi si passa attraverso delle macchine, degli altri uomini che tolgono, intervengono e che a volte possono anche snaturare. Delle volte invece è meraviglioso, riesci a vere una sorta di orgasmo, delle volte invece è difficile, non capiscono e fraintendono e tu non sei nemmeno in grado tecnicamente di contestare, puoi fare la tua strada, mandarli affanculo, però non è il mio stile.

E’ una cosa molto mediata,a volte, mi è venuta molta voglia di essere onnipotente, questo succede nello scrivere racconti.

In questo modo nessuno può metterci mano, al massimo ci può essere un editor che ti dà dei suggerimenti, quindi è molto diverso, è un materiale che è tutto sotto controllo, è un antitodo importante, interessante, mi ha fatto molto bene.

 

– A parte Rumore Rosa, hai in programma di pubblicare altre raccolte di poesie?

 

No, poesie no, non ho mai pubblicato prima di allora raccolte di poesie, è stato un delirio senile, mi sono lasciato andare, spero che non sia una cosa vergognosa. Adesso ho in programma, forse dire in programma è un po’ troppo, una serie di racconti da elaborare. Però non mi dò una scadenza, se riesco ad avere tempo tempo e voglia…sai, io ho due lavori, una famiglia, due figli…trenta-quaranta pagine di racconto ti richiedono due-tre mesi, per mettere insieme un libro, bisognerebbe essere in pensione..

 

– Che rapporto ha con Johnatan Giustini, ovvero autore del libro “Claudio Lolli,La terra, la luna, l’abbondanza” dove l’argomento centrale è la sua biografia?

 

Siamo molto amici, è stato veramente carino, ci siamo visti per due mesi, non dico tutti i giorni, ma per un totale di quasi ventiquattro ore ben distribuite. Ci siamo visti molto spesso, ci siamo visti molto spesso, è un bravo giornalista, è entrato in simpatia con me e credo che mi abbia descritto molto bene. C’è abbastanza verità, gli sono grato del lavoro che ha fatto, perché io sono carico di stereotipi: cantautore triste, cantautore politico, il cantore dell’autonomia operaia, insomma deliri assoluti; lui ha cercato e credo ci sia abbastanza riuscito a restituire una giusta visione abbastanza bene.

 

– Ritornando adesso alla produzione discografica, il 7 aprile è uscito dopo un po’ di tempo, un nuovo disco di canzoni inedite dal titolo “La scoperta dell’America”. Credi che prossimamente continuerà ad incidere nuovi dischi di canzoni inedite o questo disco rappresenta un fatto episodico?

 

Ho cinquantasei anni, non lo so.

 

 

Ci interrompe un signore che chiede degli spiccioli e CL: “hai ragione, hai ragione, non ho molto…” ed elargisce al mendicante qualche spicciolo.

Per amor di cronoca, ho riportato e riporterò in seguito questo tipo di informazioni che potrebbero apparire futili, ma forniscono un quadro completo del personaggio, anche nelle più piccole sfaccettature della vita quotidiana.

 

Questo non te lo so dire, anche perché l’ho appena finito, non lo so, quanto campo, se campo…ho cinquantasei anni, ciccio!

Poi se ho voglia di scrivere, se ho tempo, se non ho tempo…

Scendendo nel confidenziale: sono andato a trovare una mia zia che sta dietro le due torri, lei ha ottantadue anni e vive da sola!

CL: sì, ma non scrive canzoni!Anche mia madre ha ottantadue anni, ma non scrive canzoni!

 

– Parlando adesso di cinema, ci sono dei film-simbolo che hanno segnato tappe fondamentali della sua carriera e non solo, anche della sua adolescenza?

 

Devi aiutarmi perché io ho poca memoria. Mi sono riferito spesso per alcuni titoli dei miei dischi a dei film. “Ho visto anche degli zingari felici”, c’è scritto nel disco originale, non so se lo riportano le mie copie, era il titolo di un film iugoslavo di un regista di cui non ricordo il nome, che mi ha affascinato molto.

Questo titolo l’ho proprio rubato costruendoci questa storia. Poi c’è “Nove pezzi facili”, che si riferisce a un bellissimo che era “Cinque pezzi facili”, con Jack Nicolson che raccontava la storia di una famiglia di musicisti,brave persone, forse sei troppo giovane per ricordarti, c’era una pecora nera che era Nicolson che andava in giro per il mondo e ritornava a casa con una puttanella qualunque, provavano a risuanare e concludeva di ricordarsi soltanto i primi cinque pezzi facili.

Cosa che mi è piaciuta molto perché quel disco veniva dopo anni di silenzio; c’erano degli inediti e delle riedizioni.

Poi probabilmente ho rubato qualche altra cosa dal cinema e dal teatro. Mi è sempre interessata questa relazione tra la musica pop, non so se così si potrebbe definire la mia musica, e il teatro o il cinema.

Poi c’è ad esempio “Intermittenze del cuore” che viene da Proust, una sua frase.

 

  • In una intervista di qualche anno fa ha detto che tra i suoi ascolti musica italiana contemporanea c’è Samuele Bersani, aggiungerebbe qualche altro artista alla lista degli ascolti preferiti?

 

Io ascolto pochissima musica, anche per questioni di tempo. Qualche anno fa mi ha colpito lui perché mi sembra molto raffinato, dal punto di vista dei testi, dal punto di vista della musica, fa delle cose assolutamente non banali, fa fatica, ma in qualche modo riesce a farsi ascoltare.

Altre cose no perché probabilmente non le conosco, purtroppo non passo il giorno ad ascoltare le nuove uscite, anche se credo ci saranno degli straordinari artisti nuovi italiani.

 

– Come hai conosciuto Guccini, che rapporto hai avuto e hai con lui?

 

Con Francesco ho un rapporto meraviglioso, è una grande persona,.

Ti ho raccontato molto succintamente l’esordio, poi abbiamo continuato a vederci, tutt’ora ci vediamo, ci sentiamo, non spessissimo perché lui vive sui monti ormai, con questa fidanzata giovane e le occasioni non sono moltissime, però anch’io ho scritto un paio di canzoni per lui, poi le ha interpretate.

C’è un rapporto di grande stima reciproca e affetto. E’ una persona che non c’entra assolutamente nulla con il mondo della musica italiana.

Lui però è riuscito, senza vendere nulla, a mantenere un rapporto con le generazioni giovani. In questo io ce l’ho fatta meno, sono un po’ sparito.

Lui invece con la sua capacità affabulatoria e la drammaticità delle sue canzoni, la simpatia nelle relazioni umane, è riuscito ad essere nella memoria e nell’immaginario di tutti. Oggi anche i diciottenni e i ventenni sanno chi è.

La mia non è una lamentela, figurati, è una constatazione insomma, non ho nessun rimpianto, nulla da rimproverarmi.

Io sono più bizzarro di lui, si costata che sono carriere diverse.

Lui ha forse maggiore semplicità nel comunicare.

 

Un altro mendicante interrompe la nostra intervista, ma questa volta Lolli ribadisce che ha già elargito poco prima.

 

– Hai una tua filosofia del canto, ovvero qual è la sua idea di cantante, escludendo quella di autore?

 

Non so se ho capito bene, ti dico questo, io ho come estensione della voce un’ottava e mezzo, non sono un cantante, non posso prendere note troppo basse o note troppo alte, però negli anni ho imparato ad usarla molto bene, sia come timbro che come intonazione.

La mia interpretazione è più sul recitar cantando che sul vocalismo.

Ho una bella voce come timbro, poco modulabile e la calibro attraverso l’emozione. Punto su quello, non ho una grande tecnica.

 

  • L’uomo tipo di oggi è ancora secondo te “un uomo in crisi” oppure ha acquistato delle certezze, o delle finte certezze?

 

La terza che hai detto.(Ride). Quello è il problema.

In crisi non si permette più di esserlo, sarebbe una cosa da sfigati, certezze non ne ha, non ce ne possono essere e ne esibisce quindi delle finte.

 

  • Pochi giorni fa si sono svolte le storiche elezioni del 9/10 aprile 2006, come ti sei rapportato con questo evento, ovvero cosa ne pensa di questa Italia politicamente spaccata in due?

 

(Ride). Ti devo rispondere? La situazione è stata drammatica e questo lo sappiamo tutti. Io sono di sinistra: abbiamo vinto, però c’è una cosa molto drammatica dietro questa vittoria che salutiamo tutti con felicità, meno male, per fortuna, altrimenti sarebbe stato peggio.

Il nostro Paese ha una cultura cafona, volgare, utilitaristica, individualista e il fatto è che poco meno della metà del Paese si riconosca in questo tipo di rappresentazione. Non ha nessun senso dello Stato, nessun senso della collettività, dell’interesse comune. Questo è drammatico, d’altra parte, il povero Silvio ha costruito questa Italia da vent’anni con le sue televisioni del cazzo e questo è il risultato. Allora hai pochissimo più dell’Italia che ha un’idea di collettività, un bisogno di trasparenza, di razionalità, di moderazione, di regola e l’altra metà che invece ha il contrario, ognuno fa il cazzo che vuole, altrimenti è un “coglione” e uso le parole del Premier.

Questo è molto drammatico, a parte le elezioni che sono state vinte per un pelo, il resto è molto preoccupante perché sta montando una cultura del disinteresse, dell’individualismo nel senso peggiore, del cinismo. Abbiamo messo un argine per questi cinque anni, spero inizi una piccola inversione di tendenza, altrimenti avremo un italiano prebellico, l’anti-italiano, l’arci-italiano, insomma.

L’italiano piccolino piccolino che dice: faccio i cazzi miei, questa è la libertà.

Basti pensare alla questione sulle tasse. La tassa non è un balzello che dai al re, è un contributo che il cittadino dà alla collettività per avere i servizi.

Sono vent’anni di colonizzazione cinica dell’immaginario dell’italiano, questo è un problema molto grosso. E’ un processo in atto da molto tempo che nessuno è riuscito a fermare e ha fatto dei danni grossissimi.

 

  • Parlando invece di teatro, qual è il tuo rapporto con esso, parla delle tue produzioni teatrali, come sono nate, come si sono svolte?

 

Io non ho fatto produzioni teatrali, posso ricordare uno spettacolo “Dolci promesse di guerra”, con Giuseppe Alloisio, la regia e le luci di Giorgio Gaber che era veramente delizioso, che non si poteva veramente definire uno spettacolo.

Era un insieme di canzoni e monologhi, un tentativo abbastanza carino, ecc, però non ho avuto molto a che fare con il teatro.

 

Suona il telefono, risponde affettuosamente con un “heilà amore come va?”, poi si allontana.   

 

– Conosciamo il Lolli pubblico, anche se nelle canzoni e nelle poesie, il privato ha grandissima rilevanza…com’è il Lolli  in famiglia, padre e marito?

 

Questa è una domanda un po’ privata, un po’ personale, non lo so, credo di essere abbastanza affettuoso. Abbastanza tranquillo, è un’esperienza molto bella che non mi crea problemi, anzi mi dà molto. Dovresti chiederlo a mia moglie questo. (Sorride).

 

– Credi ancora nella piazza come luogo di aggregazione o suppone che la tecnologia possa sostituire questo luogo così importante? Di conseguenza come vedi la tecnologia nella società e che rapporto hai personalmente con essa?

 

Fai delle domande difficili, di vorrebbe un trattato per rispondere. (Ride).

Non lo so, sicuramente, pare che la fisicità della piazza si vada perdendo, però questa sera ad esempio c’è la festa per la vittoria di Prodi, per cui si è presenti con il corpo.

Solitamente invece molte relazioni con gli altri avvengono elettronicamente, in modo virtuale.

Io non sono nemmeno contrario a queste cose, credo si debba avallare questa retorica del “una volta si che c’eravamo, adesso non ci siamo più”.

Può avvenire invece un’espansione dei contatti di questo tipo, ma in qualche modo il corpo ci deve pur essere.

Questa “rete”, finché rimane “anarchica”, se mi passi la parola, può essere molto interessante.

 

– A parte il noto progetto intrapreso con “Il parto delle nuvole pesanti”, hai mai intrapreso altri progetti non noti con altri gruppi musicali o giovani esordienti? Hai intenzione di intraprendere dei progetti simili per il futuro?

 

No, quello con il Parto è stato un incontro da un certo punto di vista casuale, dall’altro prodotto dalla casa discografica e si è risolto, secondo me, molto bene, dal punto di vista personale e amichevole siamo molto amici, ho conosciuto delle persone molto in gamba, mi ha fatto molto piacere.

Non ho in mente altre cose di questo tipo, non dimenticare che l’ultimo disco è uscito cinque giorni fa. Basta! Un po’ di riposo. (Ride)

 

–  Per concludere l’intervista, cosa pensi del fatto che qualcuno voglia laurearsi su di te? La cosa ti fa piacere, ti incuriosisce o ti disturba?

 

No, disturba no assolutamente, mi fa piacere sicuramente, un po’ mi incuriosisce. (Ride). Ti farei una domanda: ma chi cazzo te lo fa fare? (Ride di gusto)

Io ho avuto due traduzioni dei miei libri, una di una ragazza belga (a livello letterario) e una di una ragazza francese (a livello letterario-musicale) che traducevano testi per tesi di laurea di carattere linguistico (non esclusivamente).

Poi c’è stata una studentessa di liceo che ha fatto una tesi di linguistica sulla canzone d’autore italiana comparando Guccini e me.

Tutte cose molto piacevoli, anche con lei ho fatto un’intervista.

Credo la tua sia la prima tesi interamente su di me, spero me la farai avere e ti darò il voto. (Ride)

 

Ringraziamo Claudio Lolli per questa intervista che gentilmente ci ha concesso nel cuore di Bologna.

 

5.2 Intervista a Paolo Capodacqua

 

Ci troviamo ad Avezzano, in Abruzzo, in compagnia di Paolo Capodacqua che gentilmente ci ha concesso di rispondere ad alcune domande, proprio nel suo studio personale, dove non mancano piccole, preziosissime reliquie di Lolli, ovvero cassette originali degli anni Settanta dove ci fa ascoltare in gran segreto, proibendoci di registrare; piccoli frammenti de “La socialdemocrazia”, canzone contenuta in “Disoccupate le strade dei sogni”, chitarra e voce, con tutte le caratteristiche che può presentare una bozza.

 

– Potremmo parlare di originalità in Lolli? Prova a fare qualche riferimento agli Zingari Felici e ai dischi che seguono e precedono immediatamente quest’ultimo, tracciando un po’ le tappe che ti hanno avvicinato alla sua musica.

Parlando da ascoltatore e da lolliano, posso parlare del mio percorso di ascolto.

Il primo disco che ho ascoltato è stato proprio quello degli Zingari Felici, successivamente è stato un percorso a ritroso, quindi alla scoperta degli album precedenti di questo cantautore straordinario con queste atmosfere musicali decisamente originali, soprattutto nel panorama musicale italiano.

Perché se si pensa a De Andrè, che io adoro, De Gregori, Guccini.

Prendendoli uno per uno, si può trovare la primogenitura del loro stile si può trovare in altri artisti.

De Andrè, vedi Brassen. De Gregori, vedi Dylan. Guccini vedi Dylan più influenze derivate dalla musica francese.

Questo non lo dico con valore negativo, ma è un dato di fatto.

Ritornando al concetto di originalità, credo vada segnalata anche nei testi, dove si insinua nella canzone italiana il senso del dubbio, le crisi esistenziali, le ansie di un’intera generazione, dell’adolescenza, ecc

Lo stile di Claudio era originale negli anni Settanta, ma anche oggi un progetto simile agli Zingari Felici è impensabile.

Inoltre, probabilmente, è stato l’unico ad avere un’evoluzione continua.

Ad esempio, il primo disco era spontaneo, ancora oggi amatissimo, nonostante ci siano molte ingenuità, ma nella canzone italiana ha una sua avvenenza.

Claudio avrebbe potuto fermarsi a quel punto, continuare a fare delle cose di quel tipo, se avesse avuto una mente cinicamente calcolatrice e commerciale; invece prosegue col secondo disco che è “un uomo in crisi”, che se vogliamo continua le atmosfere del primo, in quanto aveva ripreso dei pezzi scritti nello stesso periodo.

Quello è un disco di passaggio secondo me.

Per arrivare a quello che a mio parere è un capolavoro di compiutezza scritturale e compositiva che è Canzoni di Rabbia, che è un disco scritto benissimo.

Non c’è una sbavatura nei testi, ad esempio, anche se credo sia stato penalizzato dagli arrangiamenti, troppo campanelloso lo definirei.

Mi ricordo che la prima impressione avuta dall’ascolto di questo disco, quando cominciavo ad entrare nel mondo poetico e musicale di Claudio, da ragazzo, è stata quasi di repulsione.

L’ho apprezzato dopo, ascoltando bene i testi e le musiche e mi sono reso conto di quanto questi pezzi fossero meravigliosi, anche se gli arrangiamenti mi creavano un senso di disorientamento, di fastidio.

Tuttavia per quanto riguarda la metrica dei testi, ogni parola è al posto giusto, non si percepisce mai qualcosa di troppo tra il testo e la musica.

C’è sempre una ricerca formale che non va mai a discapito del contenuto, è tutto perfetto.

E’ il disco della maturità che si compierà completamente con gli Zingari.

Dal punto di vista della maturità è forse la cosa più clamorosa accaduta in Italia dagli anni Settanta in poi.

Sia per questa forma di suite con cui è costruita, sia perché c’era un progetto vero e proprio, anche di matrice politica, un progetto che rappresenta benissimo quello che erano quegli anni. Le scelte musicali e politiche erano un tutt’uno.

Claudio girava con un collettivo di musicisti, una specie di cooperativa, dove lui era semplicemente l’autore, non era il divo intorno al quale era costituito il gruppo, tutti collaborano e presumo, anche dal punto di vista economico, non ci fossero differenze tra i musicisti.

Oggi, nella situazione attuale, un cantautore vuole fare una tournèe, il produttore gli procura un gruppo, gli procura dei musicisti, fa dei contratti singoli per ogni musicista e il musicista probabilmente non sa neanche che cosa fa il cantautore con il quale deve suonare, troverà delle parti scritte da un arrangiatore e lì è finito tutto, poi magari mentre suona pensa a tutt’altro e qui ritorna il concetto di musicisti e orchestrali.

Lì c’era un progetto non solo musicale, ma anche culturale e dal punto di vista dell’esperienza umana.

Dopo gli Zingari avrebbe potuto adagiarsi sugli allori.

Se avesse fatto un disco simile al precedente che ha venduto tantissime copie, avrebbe potuto benissimo vivere di rendita, ma e qui che sta l’artista coraggioso ed è qui che Claudio tira fuori un disco, se vogliamo, per i tempi un po’ più difficile che è Disoccupate le strade dei sogni. Per me, da ascoltatore, da giovani, tra gli amici, era come sentire i King Crismon, i Genesis. Questo era il livello, insomma.

A livello concettuale, è raffinatissimo, ad esempio “Analfabetizzazione”.

Chi mai avrebbe inserito in una canzone il termine “semantica”?

La cosa strana di Lolli è che, essendo così raffinato, unico e difficile, secondo me, non ha mai fatto scuola.

Forse hanno fatto scuola i primi dischi, dove magari qualche cantautore si è rifatto.

Mi ricordo uno dei primi pezzi di Concato, che a mio parare modesto, scimmiottava Claudio Lolli.

Sarebbe troppo difficile imitare un disco come Disoccupate le strade dai sogni, troppo complicato, era già oltre negli anni Settanta.

 

– Prova a chiudere gli occhi, a tornare indietro nel tempo, precisamente proprio in quella sera a Fermo in cui incontrasti Claudio, raccontaci, se ti va, come l’hai avvicinato, quali sono state le tue impressioni, accenna quindi al preludio di quel prezioso connubio che già conosciamo.

 

La prima volta che ho suonato con Claudio fu nel ’78 a Fermo dove ho fatto un concerto prima di lui in teatro.

Quella sera non ci siamo conosciuti, anche perché io all’epoca avevo questo timore reverenziale davanti a uno dei miei miti musicali, quindi per timidezza non andavo neanche a salutarlo.

Ci siamo riincontrati quando io facevo il Dams a Bologna perché l’ho cercato per fargli sentire un po’ di canzoni mie e anche quando lui ha fatto la presentazione di un mio disco in vinile.

Quindi a Bologna ci siamo riincontrati, frequenati un po’, abbastanza superficialmente.

Invece, la nostra avventura musicale è ricominciata di nuovo a Fermo, come in uno strano scherzo del destino.

Quindi potremmo riassumere il tutto in tre momenti: dapprima il primo incontro mancato del ’78, per la precisione il 24 novembre, io avevo diciassette anni.

Quella volta è come se non ci fossimo mai conosciuti.

Poi mi ricordo che venne all’aquila a fare un concerto, più o meno nell’80 e lì presi il coraggio di andargli a portare questa mia cassettina e ricordargli quella volta del ’78.

Lui si ricordava qualcosa, ma niente di più.

Allora io gli dissi che sarei andato a studiare a Bologna, allora lui mi lasciò il numero, è stata sempre una persona molto disponibile.

A Bologna, come abbiamo detto, ci siamo quindi frequentati un po’, ma ci sentivamo ogni tanto, una volta all’anno potremmo dire.

Ci siamo poi rivisti in occasione della presentazione che lui ha fatto del mio disco “Memorabilia”, che è uscito nell’86-’87.

Ci siamo sentiti in quegli anni, però in maniera molto sporadica.

Abbiamo preso parte successivamente a una manifestazione sulla canzone d’autore in provincia dell’Aquila. Insomma, era un’amicizia, però molto blanda.

A Fermo, invece, è stata una cosa combinata perché Angelo Ferracuti, che è uno scrittore che pubblicava sempre per Transeuropa, la stessa casa di Claudio, organizzava “Paesaggi Italiani”, ovvero incontri con gli scrittori contemporanei.

“Visto che Lolli è anche scrittore, vorremmo fare una cosa invece legata alla canzone d’autore, però chiamalo tu che lo conosci, ecc…”

Chiamai Claudio. Lui non faceva più concerti, almeno dall’82-83.

Dopo l’ultima esperienza con il gruppo, con Extranei, praticamente.

C’è questa proposta, ci davano anche qualche soldino, la cosa non ci dispiaceva.

Il problema che si poneva Claudio era quello di non suonare più la chitarra e di non avere un gruppo.

Senza essere una cosa calcolata, siccome io mi divertivo veramente a strimpellare con gli amici le canzoni di Claudio, di De Andrè e di Guccini, allora nacque l’idea molto spontaneamente.

 

Prende in mano una chitarra classica un po’ scordata (rabbrividisce per le stonature dello strumento, ma continua con la passione di chi racconta) ed esegue un arpeggio di “Quello che mi resta”[10].

 

Così si accese la lampadina.

A Fermo ci trovammo un giorno prima, così provammo un po’in albergo e un po’ in teatro.

All’inizio la scaletta era molto diversa rispetto a quella di oggi.

Addirittura io suonavo un po’ di pezzi con la fisarmonica, non so suonarla, però, ad esempio, nel pezzo “Io ti racconto”, io eseguivo una linea melodica compatibile.

Facevamo anche dei pezzi miei alternati ad i suoi, la cosa era articolata in questo modo e durava tantissimo, un paio d’ore circa. Una cosa terrificante.

Nel frattempo lui aveva continuato a ricevere delle richieste.

Infatti, la settimana dopo, chiamò Sergio Martin di un importante teatro di Torino, chiese a Claudio di fare un concerto nel suo teatro. Fu così che chiese a me.

Allora partimmo per Torino, all’epoca non c’erano gli Eurostar, allora il giorno prima mi fermai a casa di Claudio.

Da vent’anni vivo tutti i cambiamenti e i progressi della rete ferroviaria italiana e dei mezzi delle ferrovie dello Stato.

Partimmo così senza provare, a parte quelle prove episodiche a cui abbiamo accennato.

Quella serata riuscì benissimo e piano piano cominciammo a dire: perché no?

Tutte le volte che chiamavano Claudio, lui per dieci anni aveva risposto che non suonava più, da quel momento cominciò a rispondere che invece si poteva fare e che c’era questa formula con un chitarrista.

Da lì chiaramente poi è nata una forte amicizia perché il mio modo di suonare non era il modo di suonare dell’orchestrale o del turnista, ma partecipavo come partecipa chi è cresciuto con le canzoni di Claudio Lolli, uno che lo sentiva come un fratello maggiore a distanza.

 

 

  • Quando hai iniziato a seguire musicalmente Claudio, ovvero in che modo ti sei accostato alla sua musica?

 

Mi sono accostato per caso, ascoltando gli Zingari Felici a 78 giri, a velocità doppia praticamente, allora questo sax arioso bellissimo ha suscitato incredibilmente la mia curiosità.

Era già il ’78, quindi era già uscito Disoccupate le strade dai sogni.

Il primo disco che io da appassionato di Lolli ho potuto contemplare nella vetrina di un negozio di dischi era “Extranei” nell’80.

Primo disco nuovo, uscito dal momento in cui ero già ammiratore, tutti gli altri li ho scoperti dopo gli Zingari Felici andando a ritroso.

 

  • Ho provato a chiedere a Claudio quali album o canzoni ritenesse “superiori” e quali invece fossero da mettere in secondo piano, ma come si sa, se le canzoni sono dei figli, il padre non ne discrimina alcune. Tu, in quanto non padre, ma ascoltatore e profondo conoscitore di tutta la sua opera, hai delle preferenze su alcuni album rispetto che altri?

 

“Antipatici antipodi”, tra tutti i dischi di Claudio e quello che a me piace di meno.

Non mi ha mai entusiasmato, anche se ha dei pezzi bellissimi come il primo, “Antipatici antipodi”, appunto; però devo dire, non mi piace come gli altri.

Resta un bel disco nel panorama della musica italiana, però personalmente non mi appassiona.

 

  • Come sappiamo, oltre ad essere un eccezionale chitarrista, sei anche un autore di musiche e canzoni per il Teatro e traduttore e interprete di Brassens, ma anche di canzoni per bambini, ecc. Che cosa accomuna queste attività simili e diverse tra loro? Claudio ha qualche influenza con le tue molteplici attività o ritieni che questa preziosa collaborazione sia una cosa diversta e a sé stante?

 

No, sono due cose diverse e anche un po’ schizofreniche se vogliamo.

Cambia tutto, anche nel modo di presentarsi al pubblico.

Un conto è presentarsi in un concerto di Claudio Lolli con il pubblico di Claudio Lolli e un conto è presentarsi davanti a un pubblico di bambini, dove devono entrare in gioco tutta una serie di componenti gestuali, mimiche.

Dal punto di vista della produzione, idem.

Le cose per bambini che faccio io seguono un percorso che prende molto spunto dalla poesia di Gianni Rodari e quindi completamente estranea se vogliamo a quello che è il mondo poetico di Claudio.

Sono due cose completamente distinte, è ovvio che per il rapporto che c’è oggi con Claudio, un’influenza la avverti per tutta quella che è la tua vita, per tutto quello che è il modo di agire, anche le tue scelte, nel senso che molte mie scelte, anche personali, che magari esulano dal campo professionale della musica, le ho fatte proprio parlando con lui, questo sempre dal punto di vista dell’amicizia.

Se vado a ritroso, credo che anche qualche scelta artistica, per quanto riguarda i brani per bambini o l’attività teatrale, ecc. è stata operata magari perché parlandone con Claudio, è riuscito a darmi qualche suggerimento.

Questa cosa la vivo molto come un rapporto con un fratello maggiore, un po’ per l’età, visti gli undici anni di differenza.

Lui ha una capacità di analisi della realtà delle cose alla quale io mi appoggio spesso.

Nella mia vita Claudio è una persona di riferimento molto importante, noi parliamo molto dei fatti nostri, delle nostre famiglie, dei problemi quotidiani; e questo aiuta senz’altro alla musica.

Questa bella impressione (spero) del reading che facciamo che viene fuori, probabilmente è anche frutto di questo rapporto.

 

  • Se dovessi fare un personalissimo resoconto della carriera di Claudio, senza il tuo saggio intervento, quali sviluppi secondo te avrebbe avuto, inoltre, racconta anche per aneddoti, com’è l’esperienza sul palco insieme.

 

Non lo so, è molto difficile questo.

Io penso che avrebbe continuato sicuramente la sua attività discografica, questo di sicuro; ritengo che comunque quest’attività dal vivo abbia aiutato a creare delle occasioni e delle opportunità anche discografiche.

L’incontro con Storie di Note[11] è avvenuta perché siamo andati a fare un concerto, chiamati da questo produttore. Lincontro con altre realtà, idem.

Questo incontro è stato reciprocamente positivo, a parte l’amicizia, dal punto di vista di quello che ha prodotto per quanto riguarda l’attività professionale.

Per quanto mi concerne, io ho iniziato a definirmi un musicista da quando suono con Claudio che mi ha dato questa grande possibilità di esprimermi.

Non smetterò mai di ringraziarlo perché per quanto potessi essere musicista prima, componendo canzoni e musica per il teatro, ho cominciato anche a sviluppare una certa tecnica chitarristica, a lavorarci sopra in un certo modo, grazie a questa possibilità e al fatto di fare delle cose dal vivo. E’ sempre molto stimolante.

Per Claudio quest’incontro ha rappresentato una svolta in riferimento a tutto quello che è venuto dopo. Il progetto con gli zingari può esserne un esempio.

Se vado a ritroso e penso a quello che è successo in questi quindici anni, dopo vent’anni di concerti e di incontri, ti dico che tutto quello che c’è oggi, a parte l’attività editoriale che chiaramente è una cosa sua e a un’attività discografica che avrebbe avuto sicuramente, è una conseguenza di questo incontro.

L’incontro con il Parto è avvenuto perché abbiamo incontrato Storie di Note, di conseguenza abbiamo conosciuto Johnatan Giustini.

Alcuni dischi, come “La via del mare”, hanno avuto luogo grazie all’incontro con Gianni D’Elia[12].

Tra Claudio e Gianni c’erano già dei contatti, dopo la scrittura del testo di Tien an men da parte di Gianni.

Dal punto di vista umano, questa possibilità di fare tanti “live, ci ha permesso di conoscere centinaia di persone, anche di diventare amici di alcuni di queste persone.

Oggi se dovessimo tracciare una specie di bilancio umano ed esperienziale di questa cosa, risulta un bilancio sicuramente ricco e positivo.

Abbiamo girato l’Italia, abbiamo suonato in situazioni bellissime e in situazioni meno belle, abbiamo vissuto esperienze indimenticabili, ma anche molto fastidiose.

Però tutto questo l’abbiamo fatto, come dice il poeta, posso dire di aver vissuto.

Abbiamo conosciuto letteralmente tantissima gente, anche perché Claudio, non per fare nomi, ma non è De Gregori che arriva sul palco all’ultimo momento e se ne va cinque minuti prima che il concerto finisca.

La gente va a salutare Claudio e lo circonda in massa.

A proposito di esperienza live, ti voglio raccontare un aneddoto; Claudio è un grande cazzeggiatore sul palco, nel senso che riesce ad inventare delle informazioni improbabili che alla fine giungono a risultare vere.

Tutte le sere afferma quindi che io sono laureato al conservatorio di Sulmona con una tesi sulle mie canzoni, d’altra parte è anche un’affermazione sbagliata perché al conservatorio ci si diploma.

Il suo tono risulta così serio che probabilmente inizia a crederci anche lui.

In realtà la mia tesi per il Dams era su un cantautore futurista, Rodolfo De Angeli, nonostante abbia fatto qualche citazione che lo riguardava.

Il conservatorio di Sulmona, non esiste, non c’è.

Non ho fatto nessuna tesi che lui menziona, né il conservatorio.

Questa cosa è nata perché al primo concerto, quello famoso di Fermo, non sapendo come presentarmi, lui disse: Paolo Capodacqua, chitarrista diplomato al conservatorio di Cocullo che è un paese vicino Sulmona. Ormai la prendo come una cosa vera.

Addirittura dice “il più selettivo”. E’ in qualche maniera un modo di cazzeggiare.

Vivendo insieme tra di noi, nascono un sacco di gag, di situazioni scherzose.

Spesso dobbiamo trattenere la risata sul palco dal vivo.

Un’altra delle sue goliardie è stata: “il mio psicologo mi consiglia…”.

Fu così che un signore gli si offri di fargli da psicologo.

La sua intenzione è così credibile e verosimile che la gente ci crede veramente.

Pensa che sono usciti articoli di giornale con scritto: “Il chitarrista Paolo Capodacqua, diplomato al famoso conservatorio di Sulmona”.

Noi abbiamo questo modo di fare il nostro lavoro, sicuramente profondo e passionale, molto legato a quello che proponiamo, ai testi, alle musiche.

La mia chitarra è una sorta di amplificazione della semantica, dei testi di Claudio, della poetica.

Penso ci sia una specie di riverbero della parola e una specie di riverbero della musica; i riverberi si incontrano in un punto che è una terza dimensione.

Probabilmente quello che io riesco a percepire, è proprio questo.

Questo avviene, non solo perché c’è una fusione, musicale, poetica, culturale, ma soprattutto umana.

Noi a volte facciamo delle cose commeventi e ci commuoviamo di conseguenza, tuttavia riusciamo a farci delle risate grasse anche su delle cose più becere.

Io ho avuto delle esperienze musicali dopo anche dopo tanti concerti non sono riuscito ad entrare in sintonia con le altre persone.

 

  • E’ stata a mio avviso una definizione molto incisiva quella a chiusura del documentario di Salvo Manzone: “Claudio non esiste, ma è una proezione di tutti i lolliani”, seppur estemporanea e stralunata, come la spiegheresti cin un tuo pensiero più articolato?

 

(Ride). Questa è una cazzata detta alle due di notte da ubriaco.

Intanto bisogna contestualizzarla: due e mezzo del mattino in un locale di Milano, dopo un concerto.

Questa frase l’ha citata Luca Sofri nell’incipit di un articolo che ha scritto sugli Zingari Felici.

Claudio secondo me è davvero una proiezione, lo vedo perché conosco le persone che vengono ai concerti.

 

  • Hai conosciuto personalmente tanti lolliani, che tipo di persone sono in generale?

 

Ho conosciuto gran parte di lolliani. Ce ne sono di tutti i tipi: i ragazzini giovani, di diciotto-vent’anni che hanno scoperto Claudio attraverso i dischi dei genitori, degli zii, ecc. Spero non ancora dei nonni…

Questi ragazzini vivono la cosa come un’esperienza nuova musicalmente, soprattutto in un panorama musicale che è quello che è.

Ci sono anche nostalgici che vengono ai concerti per risentire le canzoni della loro adolescenza.

Altri invece hanno una passione forte, sfrenata, al punto che sono capaci di venire ad un concerto a Palermo e poi rivenire due giorni dopo a Milano.

Questo diventa anche una specie di atteggiamento goliardico e giocano su questa cosa.

Allora io gli dico: ma come stavi a Palermo ieri e stai a Milano oggi?

Dunque stanno al gioco e continuano il gioco, allora diventa una specie di gag infinita tra di noi. Così per dire: “Oggi siamo a Firenze, vuoi vedere che non venivi apposta da Cosenza”!

Il pubblico, come ti dicevo, è molto variegato, c’è ad esempio una specie di zoccolo duro, di fedelissimi.

C’è un pubblico di quella società che rappresenta quel tipo di società civile che non si è mai piegata ai modelli, ai nuovi valori del berlusconismo, ai valori della raccomandazione politica…gente per la quale la coerenza politica, umana, comportamentale, è una cosa importante.

Vedono evidentemente in Claudio un modello in questo senso, uno che ha pagato se vogliamo.

Apro e chiudo una parentesi: pagato relativamente, perché Claudio non aspirava al successo televisivo o commerciale, quindi, non ha pagato un bel niente.

Credo che per Claudio le cose vadano bene così come sono, perché evidentemente i valori sono altri; non è il musicista che cercava il successo di pubblico.

Pagato nel senso che ad un certo punto si sono chiusi dei canali che potevano essere importanti per la diffusione della sua musica, in questo senso sì, non pagato perché non ha avuto “il successo” del vasto pubblico.

Ritornando al discorso sulle “proiezione”, conoscendo queste persone, che sono i rappresentati di quella società civile che resiste, ti rendi conto di questo, cioè che per molti Claudio Lolli è veramente una proiezione del proprio modo di essere, cioè della priopria etica, della propria morale politica e umana.

Credo che l’intuizione originaria di questa frase fosse questa; forse è così per tutte le persone come Claudio, cioè per coloro che rappresentano qualcosa per gli altri, che forse non esistono più come persone, ma come proiezioni, forse è un destino.

Lo vedo da come alcune persone avvicinano Claudio con una certa riverenza e con timore, attraverso un approccio imbarazzato.

Di solito si ha una forma di timidezza nei contronti di un personaggio pubblico, ma nei confronti di Claudio c’è come una forma di rispecchiamento, in quanto rappresenta un modello culturale ben preciso, ovvero quello dell’onestà intellettuale, dura e pura…anzi no, questo termine non mi piace affatto.

Insomma quella frase detta tra il serio ed il faceto contiene del vero, cosiccome solitamente lo scherzo contiene un briciolo di verità.

 

  • Cosa pensi di Claudio Lolli scrittore, cosa cambia secondo te dal Lolli cantautore?

 

Per me Claudio Lolli scrittore è un ricordo non molto vicino, infatti l’ultimo libro che ho letto è stato l’ultimo uscito, cioè “Nei sogni degli altri”.

Una cosa che risale ormai a dieci anni fa, quindi onestamente non mi ricordo molto.

C’è però un lavoro discografico che ritrovo più vicino al Lolli scrittore, cioè “Extranei”, infatti tutte le canzoni sono come dei piccoli racconti.

Come scrittore ho visto che lui lavora molto sulle persone, sulle figure, l’umanità insomma, scavando nella psicologia del personaggio, nei deliri, nelle paranoie, nelle metamorfosi che subiscono le persone.

C’è però un racconto che mi ha colpito molto, ovvero “Considerazioni di un rettile”.

Ne “L’inseguitore Peter H.” invece veniva individuata una predisposizione criminale in ogni gesto riferito alla letteratura, io ho poi ritrovato qualcosa ne “Il nome della Rosa” di Eco, cioè la letteratura associata al crimine […] laddove questo vecchio che poi era una specie di parafrasi di Borghes, questo nell’Inseguitore Peter H.

Ci sono delle cose che mi hanno intrigato, cioè come uno scrittore possa arrovellarsi intorno ad un gesto, ad esempio, la moglie di Ceausescu.

Un racconto costruito semplicemente sul gesto; se ti è capitato di vedere questo processo sommario a Ceausescu e alla moglie, a un certo punto, durante questo interrogatorio se possiamo chiamarlo così, la moglie di Ceausescu sposta la borsetta, la sposta i dieci centimetri e Claudio costruisce un racconto intero su questa cosa.

[…] Penso sia stata importante questa sua attività di scrittore.

E’ venuta fuori soprattutto nel periodo in cui lui non faceva più concerti mi sembra di capire, quindi era un modo per esprimersi, molto più immediato e soprattutto svincolato dall’industria discografica, dal produttore, della sala di registrazione.

Esprimersi con un romanzo significa stare tu e il computer, poi consegnarlo all’editore.

Scrivere e far uscire una canzone significa che l’atto compositivo è solo la prima parte che ha bisogno di una trafila allucinante, che va alla produzione, alla registrazione, all’arrangiamento, alla mediazione con i musicisti e dalla pubblicazione vera e propria, quindi dalla distribuzione, dalla promozione, quindi della pubblicità.

Vengono tagliati tantissimi passaggi nella scrittura, nella narrazione.

 

 

  • C’è un motivo preciso perché hai scelto di interpretare Brassen? Secondo te hanno qualcosa in comune Claudio e Brassen?

 

Ho interpretato Brassen perché questo rientra nella finestra sul mondo apertami da De Andrè, così come “Spoon River”, “I vangeli apocrifi”, così come tante altre cose.

Sono venuto a contatto con Brassen grazie alla scrittura di De Andrè.

Amando molto De Andrè, sono andato alla fonte per cercare, dopo averlo cantato e suonato tutto  per conto mio, sono andato alla ricerca per pura passione di quello che era l’ispiratore.

Ho amato Brassen come ho amato De Andrè perché ritengo che sia uno straordinario autore.

Penso Brassen sia la “perfezione” come in alcuni lavori di Claudio.

Affinità tra Claudio e Brassen non ce ne sono stilisticamente perché è diverso il linguaggio, a parte la musica altrettanto diversa, anche se “Borghesia” rievoca molto la ballata brassensiana, sia musicalmente che nella maniera immediata del testo.

Claudio probabilmente è un autore più complicato, felicemente complicato.

Torno a testi come “Analfabetizzazione”, “Da zero e dintorni”, ecc

Brassen non avrebbe mai scritto un pezzo come questi che ti ho citato.

Egli è un artista che va pane al pane e vino al vino, detto in maniera elegante, detto in maniera raffinata, con una grande consapevolezza stilistica e scritturale, ma non avrebbe mai usato le metafore e le figurazioni che usa Claudio, gli intrecci, gli intersecamenti semantici tra concetti, ecc

Come atteggiamento artistico rispetto alla realtà probabilmente potrebbe avere qualche consonanza.

 

  • Come confronteresti Piero Ciampi e Lolli?

 

Piero Ciampi e Lolli hanno un atteggiamento di dissacrazione simile, rispetto alla realtà, però Piero Ciampi probabilmente ha una spontaneità diversa rispetto a questo atteggiamento autodistruttivo, mentre Claudio riesce forse a razionalizzare anche la propria “disperazione”[13] e a renderla sempre in maniera precisa.

Campi è uno che va nell’immediato, “quanto è bello il vino bianco bianco bianco, quanto è bello il vino rosso rosso rosso”, “vaffanculo”…Ciampi è uno che agisce veramente con i nervi scoperti.

Claudio e Piero Ciampi partono da un presupposto probabilmente, percui la “disperazione” e l’angoscia è una delle più alte forme di critica.

Dal punto di vista della maturità stilistica e compositiva Claudio è molto diverso.

Di Ciampi ha probabilmente un attegiamento simile nei confronti della vita, ma neanche tanto, è più razionale, razionalizza la malinconia, penso sia un termine più adatto rispetto a disperazione.

La malinconia come mezzo per conoscere la realtà, è il primo stadio.

Ciampi è il senso dell’autodistruzione, della negazione di qualsiasi progetto.

Penso che Claudio sia una persona felicemente malinconica, mentre Ciampi andrebbe definito in altri termini che adesso non saprei trovare.

Claudio è capace di elaborare sia un progetto di vita che artistico e questo è una grande fortuna per noi perché grazie a questa capacità ci troviamo dei lavori importantissimi per la storia della musica d’autore italiana.

 

  • Classica domanda da intervista: quali sono i tuoi progetti musicali per il futuro, sono legati a Claudio o riguardano te direttamente?

 

Con Claudio il notro progetto è iniziato quindici anni fa ed è forse il progetto più importante della mia storia professionale, io direi che è l’avventura più importante.

E’ un’avventura che spero finisca direttamente con la nostra trasposizione in cenere.

Fino a quando riusciremo a reggerci sulle gambe penso proprio che questo sarà il progetto con tutte le novità che vuoi, ecc.

Ad esempio suoneremo a Sanremo insieme a un sassofonista molto bravo, insomma siamo anche aperti a tutto quello che può capitarci.

Questa è una cosa non progettata, ma semplicemente ci è capitato di incontrarlo a Roma (aveva suonato nell’ultimo disco di Claudio) e lui ha imporvvisato delle cose sul nostro intervento e ci piaceva ripetere questa cosa anche a Sanremo.

E’ un progetto che si arricchisce fortunatamente, periodicamente di cose nuove, di persone nuove.

Certo, noi due siamo in qualche modo il fulcro, facciamo riferimento uno all’altro.

Questo è comunque il progetto, professionalmente parlando, più importante.

Personalmente io ho le mie attività, ho finito da poco una collaborazione con una radio svizzera, Radio Televisione Svizzera Italiana, per quanto riguarda un programma radiofonico che si chiama Lilliput, condotto dalla giornalista Sonia Riban. C’è anche un sito internet dove puoi trovare l’archivio delle trasmisisoni.

Questo programma è legato molto ai temi dell’infanzia; praticamente per ogni puntata incentrata su un libro, io compongo delle brevi canzoni, anche di una strofa, due strofe e delle musiche.

Quindi, tra un’intervista e l’altra lei fa sentire queste cose legate al tema.

Inoltre con Angelo Ferracuti, questo scrittore che pubblica per Giunti, per Marsilio, l’ultimo per Feltrinelli (Risorse umane), abbiamo messo su una specie di reading, anche qui con letture sue e anche in questo caso ho scritto dei brani, canzoni molto brevi su ogni racconto e l’abbiamo presentato all’Arena del Sole.

Sullo sfondo ci sono anche le fotografie di Mario Rondero che è un grandissimo fotografo e amico di Angelo.

 

 

5.3 La perfomance dal vivo

 

30 luglio, festa dell’unità, fortezza dal basso, Firenze.

 

Per una maggiore fedeltà allo studio del personaggio che si può apprezzare dal vivo, ho voluto riportare il testo della presentazione al pubblico, in quanto contenitore di fondamentali teorie che riguardano interamente la sua poetica e il suo pensiero.

Inoltre, ho voluto illustrare l’ambiente in cui si svolgeva l’esperienza live, le reazioni del pubblico circostante e analizzare i comportamenti durante la performance, quasi con perizia etnomusicologica.

Munito di un piccolo registratore digitale, mi metto a sedere in posizione centrale, esattamente in prima fila.

Palco abbastanza grande, certamente non monumentale, quattro casse autoamplificate, posizionate sul proscenio, microfono in prossimità di una sedia verde in plastica.

Altre quattro casse sulla sinistra, altre quattro sulla destra, sempre autoamplificate.

Applicate alla struttura dell’impalcatura che circonda il palco, sventolano bandiere dell’Italia, bandiere dell’Ulivo, altre di Rifondazione Comunista, altre ancora della sinistra giovanile. Sulla sinistra un mixer piuttosto potente.

Le luci che anticipano lo spettacolo sono di color rosso, non si sa se per casualità o di proposito, visto che ci troviamo alla Festa dell’Unità. Sono di numero dieci in tutto.

I posti a sedere sembrerebbero un centinaio così a colpo d’occhio, la maggior parte dei posti sono occupati, ma non c’è un’affluenza di pubblico clamorosa. Sulla mia sinistra un estimatore di Lolli constata la contenuta affluenza di pubblico e sfoggia la sua conoscenza dell’Artista ricordando le opere degli esordi come “Aspettando Godot” e “Borghesia” e “Quelli come noi”. Fa qualche battuta in fiorentino sulla prima canzone citata. La scarsa affluenza di pubblico è tuttavia giustificata dal fatto che non sono ancora giunte le 21,30, ora dell’inizio dello spettacolo.

Altri ricordano le opere più recenti…un tizio scherza sulla canzone “Ignazio” e recita a memoria i primi versi…”Dove vai a scopare Ignazio,/ quando viene la sera,/ dopo la tua giornata morbida e pesante/ come la crema pasticcera”/…e continua a macchinetta fino a metà della canzone, un altro si lamenta del fatto di non poter trovare in cd l’album “Antipatici Antipodi”, pur disponendo della sua copia in vinile.

Altri ancora si chiedono se canterà le vecchie canzoni, bisbigliando estasiati e desiderando il brano “La giacca”, contenuto in “Un uomo in crisi” del ’73.

Claudio Lolli, lui, in persona, fuma nervosamente una sigaretta in fondo al palco; appena finisce, sorseggia una birra e con il suo quadernetto si avvicina al microfono e sulle note del maestro Paolo Capodacqua inizia a cantare “La fine del cinema muto” per aprire il concerto.

Nel mezzo della canzone sorseggia il suo bicchiere di birra.

Essenziale nell’abbigliamento, un paio di pantaloni avana e una camicia blu a maniche corte, un orologio al polso.

Dopo la prima canzone si abbandona ad un discorso molto ironico seguito dall’approvazione del pubblico.

 

Esegue: La fine del cinema muto.

 

Il pubblico applaude alla fine della prima canzone.

 

CL: “Grazie, grazie mille, sono veramente contento di vedervi così desiderosi di ascoltare queste canzoni di straordinaria allegrezza (il pubblico ride), perché come sapete io sono conosciuto come uno dei cantautori più allegri e gioiosi del mondo (il pubblico ride ancora),la gara con Ivano Fossati è sempre in bilico.

Come voi sapete, questi sono tutti luoghi comuni.

Abbiamo scelto di accogliervi questa sera a Firenze con una canzone che è del millenovecento…(silenzio)…millenovecento?… (Capodacqua: 53!) – Macchè 53…’83!

Dopo vi presenterò la mia protesi inevitabile!

Nel 1983 una canzone che mi ha dato veramente molti problemi perché nessuno capiva che cosa voleva dire.A me sembrava così semplice…e così bella, e…sono stato accusato da molti di intellettualismo…è vero che sono un pochino snob…non è poi che mi dispiaccia questa cosa…però in realtà mi posso permettere di prendermi ventidue, ventitré minuti per spiegarvi le origini di questa canzone (il pubblico ride)…la cosa dal mio punti di vista era molto semplice, che cosa c’abbiamo in mente noi oggi…che cosa hanno in mente i ragazzi…faccio anche l’insegnante in un liceo…hanno in mente il progresso, hanno in mente di stare nel migliore dei mondi possibili, i cui difetti sono eventualmente e comunque modificabili. Non c’è nessun problema. Quel carburante inquina? Inventiamo la marmitta catalitica. La marmitta catalitica inquina? Inventiamo il motore all’idrogeno.

Un futuro sempre verso l’alto.

Io non credo sia così e se voi siete qui, penso che neanche voi siete convinti di questo e allora quella del cinema muto era una metafora, una semplice metafora. Il cinema muto aveva degli attori straordinari, capaci di una gestualità incredibile e di una presenza scenica magari eccessiva, melodrammatica, visto che non avevano la parola.

Il progressi è stato il cinema sonoro, ne ha ammazzati moltissimi, allora rendiamoci conto che il progresso è, come diceva sempre un vecchio scrittore ottocentesco siciliano, è una cosa che produce dei danni, fa delle vittime.

La canzone finiva con delle bombe, 1983…

Il problema qui è, come diceva Paolo Rossi, se uno è molto intelligente o molto avanti…porta sfiga! Non so, scegliete voi l’opzione, ma le bombe ce le abbiamo,assolutamente,da sempre, oggi più che mai.

Allora volevo invitarvi a questo viaggio a questa piccolissima riflessione sulla storia, cominciando con una canzone che non è mia, ma che affronta secondo me dei nodi più fantastici della storia d’Italia. Noi siamo una repubblica che vive su una rimozione. Non sappiamo nulla di quello che è successo negli ultimi trent’anni.

Questa canzone ve la devo però presentare un attimo,solo venti-trenta minuti (risata del pubblico),perdonatemi, poi vi spiegherò quel è la mia malattia mentale che mi costringe a parlare così a lungo, però questa va presentata.

La melodia: è una vecchia melodia anarchica della fine dell’ottocento.

Il testo: un testo di movimento che si cantava e si urlava per le strade negli anni Settanta.

Che tutti continuano a definire anni di piombo e invece a mio avviso sono stati anni di straordinaria crescita mentale e morale di questo paese.

Il primo episodio di terrorismo in Italia, una bomba alla Banca dell’Agricolutura.

Un anarchico arrestato, un anarchico che cade, così dice,cade…con tutte le virgolette, mettetele voi le virgolette…cade dal quarto piano di quella questura.

Il movimento ha, non voglio essere demagocico, cantato questa cosa e l’ha cantato a modo suo. Non so, non conosco più la verità, è molto difficile pensare di conoscere la verità.

Io vi racconto questa verità degli anni Settanta che mi sembra accettabile.

Devo dirvi solamente due cose della canzone.

Politicamente non è corretta, forse neanche Eminem la canterebbe…seconda ed ultima cosa, noi ne abbiamo fatto una specie di ninna nanna perché sono quei momenti tra la veglia e il sonno, quei momenti in cui non si sa bene di esistere, quindi migliori per capire forse un po’ di verità.

 

Esegue “La ballata del Pinelli”.

 

CL: La verità è difficile, fa soffrire,pensate quanto può essere difficile e fa soffrire a 22-23-24 anni.

Bisogna immaginarsi un modo, non dico di fuga, ma un’alternativa vitale.

Questa canzone invece è mia, è una canzone del 1977, anno magico, anno mitico, anno con due sette. Che significa, per chi fosse fedele all’astrologia ed io non lo sono, un doppio di diavoli benigni che vengono a salutare la tua vita. Per salvarsi una vita s’intende una fuga individuale. Io l’ho pagata con molto piacere, molto volentieri,ma ho sempre in mente un salvarsi la vita collettivo,tanta gente, una generazione, una classe,classe scolastica, classe operaia,qualsiasi cosa.

Anche qui, il titolo di questa canzone mi ha dato molto da fare, molti problemi.

Già a quel tempo, nel 1977,già si capiva qual’era l’origine del potere, anche se mi prendevano in giro. L’origine del potere è il linguaggio, nella comunicazione. Dopo vent’anni l’abbiamo capito perfettamente,chi è che gestisce il potere perché ha modo di cominciare con gli altri. Allora, per salvarsi la vita da questa storia,sembrava una signorina da cui non potersi più fidare…com’è possibile che un simpatico anarchico cada da un quarto piano della questura aperta perché c’è troppo fumo.

Cioè, uno non ci crede più!C’è qualche cosa che non funziona, non so qual è la risposta, ma è difficile crederci e allora mi sono immaginato una fuga di questo tipo, una fuga del linguaggio. Il titolo per cui tanti mi hanno preso in giro è questo; anche questo sembra un po’ snob, un po’ difficile, ma non lo so, mi prendo questi venticinque minuti per spiegarvelo…”Analfabetizzazione” vuol dire semplicemente il contrario di “alfabetizzazione”. Il contrario dell’imparare l’alfabeto e il contrario dell’imparare il linguaggio, in quanto linguaggio del potere.

Il protagonista di questa canzone rifiuta la semantica,chiama le cose come vuole lui. E’ una ribellione drastica, irreversibile, ovviamente utopica e simbolica,però è carino pensarci.

 

Esegue “Analfabetizzazione”

Sembra non guardare il pubblico, fissa un punto nel vuoto, ma riesce a comunicare le giuste vibrazioni molto efficacemente.

Una luce rossa colora “Analfabetizzazione”.

Cambia alcune parole della canzone, non si sa se per errore o per creatività momentanea.

Il maestro Capodacqua riempie con sublime maestria tutte le parti non cantate, riesce assolutamente a supplire la mancanza di tutti gli altri strumentisti, che di fatto non è una mancanza, ma una piena ed appagante essenzialità.

 

CL: Devo dirvi qualche cosa, anzi parecchie cose, lo so, mi sto prendendo un po’ di tempo, però,non avete fretta, no? Possiamo stare anche fino alle quattro, cinque di mattina; devo spiegarvi delle cose importanti,la prima è questa qui…non preoccupatevi perché il concerto è molto più divertente, adesso stiamo affrontando delle tematiche serie,il potere per esempio, vi leggerò un canzone che parla di questo…ma dopo è tutto un ballare,ci sono le ballerine che si stanno scaldando, tamburelli, triccheballacche, ecc.ecc.

Questa è la prima cosa, tranquillizzatevi,perché dopo si ride,adesso un attimo si piange, spero di no.

Magari si ride veramente, ho cambiato molto il mio stile di presentazione al pubblico e questa è la seconda cosa che vi devo dire.

Io sono un malato mentale,penso che si noti appena mi si vede,non ci sono problemi,però la mia malattia è cambiata, quando ero giovane e adesso si vede che non lo sono più, ho 36 anni, ma li porto molto male.

Quando ero giovane la mia malattia mentale era una sorta di chiusura della parola, afasia. Non parlavo.

Ricordo il mio diciottesimo compleanno, mia madre, poverina, piangente e frustrata da questo figlio strano e strambo,mi disse tagliando la torta con le candeline di plastica…mi disse questa frase che io ricordo: Claudio, tu, quest’anno, in casa, con me e tuo padre, hai pronunciato diciotto parole…io non ho risposto, mi sarebbe sembrata una mancanza di coerenza…(il pubblico ride…)

La malattia adesso si è mutuata in un altro modo…esso è il contrario,io parlo tantissimo, parlo moltissimo,è difficile fermarmi…e questo è un pericolo soprattutto per voi!

Rischiamo veramente di fare le tre, perché se io presento tutte le canzoni che dobbiamo farvi sentire in questo modo,veramente, la Fortezza chiude e restiamo qui in una sorta di milleottocentesco imprigionamento barbarico-napoleonico.

Cercherò di contenermi, però se eccedo, voi alzate la manina e dite: smetti!

E questa è una seconda cosa.

La terza cosa, non so quale sia l’ordine giusto, ce ne sarebbero ancora cinque o sei.

La relazione con il potere.

Per me non è stato facile neanche immaginare un’immagine di potere: ci ho messo del tempo.

Poi, facendo questo lavoro che è un lavoro cialtrone e zingaresco e molto interessante proprio per questo, ho avuto un’idea che adesso vi spiego. Credetemi, pochissimi minuti…

Non so se lo sapete, vengo da Bologna, città…parlo anche velocemente per abbreviare il tempo (il pubblico ride)…è una città che è stata (diciamocelo!Siamo alla festa dell’Unità…) per molti anni una sorta di simbolo, di faro.

Si può non essere d’accordo, però io ricordo quand’ero ragazzino,Piazza Maggiore, la piazza centrale di Bologna, in cui c’erano questi vecchietti che discutevano di politica, oggi giocano a bocce, nel migliore dei casi e guardano televisione nel peggiore dei casi.

Discutevano di politica e dicevano (accentua l’accento bolognese che di fatto non ha nella sua naturale pronuncia): Bologna, Bologna, il faro, è tutto quello che l’Italia dovrebbe seguire,perché qui abbiamo tutto, perché qui è fatto tutto bene, dovrebbero tutti seguirci.

Bologna aveva anche un problema; il difetto principale di Bologna è secondo me che si trova a cento chilometri da Rimini e lì son due mondi che si scontrano. E qui anche vi dico una cosa che mi riguarda.

I miei genitori molto spesso, quasi tutti i fine settimana volevano portarmi a Rimini; Non c’è nulla da ridere, signora, è stata una cosa molto drammatica nell’adolescenza…perché dicevo, avrei cominciato questo racconto di Kafka, “La metamorfosi”, vorrei finirlo…avrei cominciato questo libro di Marx…m’interesserebbe…anche se è molto difficile andare avanti…

A Rimini perché puoi giocare, con la sabbia, con l’acqua, diventerai bello, grande e forte!

Eccomi! (Risata generale e scroscio di applausi).

Secondo e ultimo punto,mi hanno chiesto di fare un concerto a Foggia…vabbè, sono solo dodici ore di treno, ti danno duecentomila lire,perché no? Cento mila lire le spendi per il treno e le altre te le godi.

Il mio concerto era così organizzato: discoteca, discoteca! Sapete di che cosa si tratta, no? Un trespolone,a mezzanotte si spegneva tutto,i ragazzi ballavano, si divertivano, ecc.

A mezzanotte si fermava tutto, io salivo, da solo, con la chitarra sul trespolone e intrattenevo per una mezzoretta questi ragazzi…non so se avete capito (il pubblico ride e commenta),mi è venuto in mente Tenco in quei giorni…(altre risate), perché era una cosa non fattibile…se questo è il mio lavoro, non lo faccio più, però mi è venuta in mente un’altra cosa in questo viaggio verso Foggia, ho visto questo mare…l’Adriatico. Siccome mi sembrava che in qualsiasi modo si potesse trovare una risposta al desiderio dell’immagine di potere, mi è sembrato che quella fosse quella giusta.

Non è sanguinario, violento, volgare sì, insistente si, ma non troppo aggressivo, piuttosto subdolo; Allora ho scritto questa canzone che si chiama “Adriatico”, che dedico a quelli che amano il precedente governo,perché credo che il potere abbia una forma di questo tipo. Sono stato nei tempi.

 

Esegue: “Adriatico”.

 

Un addetto al mixer incredibilmente somigliante a un noto giocatore di calcio, mastica gomma americana e guarda con un po’ di diffidenza Lolli che dopo essersi versato da bere, inizia a cantare.

Mentre il maestro Capodacqua spadroneggia con un assolo acustico, Lolli si soffia il naso in disparte, con fare quotidiano, poi segue con la birra. Si accende una sigaretta, vaga per il palco quasi disinteressato, si comporta con assoluta umiltà e normale, ma con un filo sottile di stravaganza.

 

CL: A questo punto, ovviamente è inevitabile che io vi presenti il mio compagno di avventure, il maestro Paolo Capodacqua (il pubblico applaude fragorosamente),non esagerate altrimenti si gasa; diplomato al conservatorio di chitarra classica di Sulmona, che come sapete è uno dei più selettivi d’Italia,con una tesi di cui forse vi faremo sentire qualche cosa…tranquilli perché la parte noiosa di concerto è finita,adesso comincia quella pallosa (il pubblico ride), se si entra in un linguaggio più amichevole quindi ci si diverte di più. Il discorso sul potere l’ho finito. Noi abbiamo avuto quest’idea e ci abbiamo ragionato molto, noi siamo due vecchissimi girovaghi zingareschi molto felici, ma anche molto perduti nel mondo.

Una volta ci siamo posti una domanda epocale: la storia è questa, il potere è questo, non ci vogliamo buttare dalla finestra di una questura, non vogliamo essere buttati dalla finestra di una questura,che cosa dobbiamo fare?

Abbiamo pensato dopo lunghe discussioni che non eravamo d’accordo perché io sono la mente e lui è il braccio, quindi alla fine ha avuto ragione lui. Ci siamo chiesti che cosa può salvare veramente questa vita. Il lavoro? Ma chi se ne frega.I soldi, chi se ne frega.

Siamo advenuti a questa soluzione:la musica e l’amore. Le uniche due cose che valgono la pena di vivere.Ho detto “la pena” e non è un lapsus.

La musica la stiamo facendo per voi veramente con molto piacere,qualche canzone d’amore forse non vi disturba.

Questa è una canzone d’amore del 1977. Io sono stato sfortunato coi titoli perché metto dei titoli talmente strani che alla gente non piacciono.

Tutti mi chiedono: ma che vor di?

Il titolo è “Da Zero e dintorni”,si parla di una persona che è arrivata vicino alla fine della sua vita, non alla fine fisica o anagrafica o temporale,ma psicologica, deve quindi ricostruirsi.E’ lì vicino.Zero e dintorni.

Ultima avvertenza:in questa canzone si pronuncia sedici volte la parola compagna, lo so che siamo alla festa dell’Unità,però alle volte mi hanno detto che era un po’ eccessivo. Spero di non offendere nessuno.

 

Esegue: “Da Zero e dintorni”

 

CL: E’ vero che noi siamo girovaghi e zingareschi. Non vorremmo che voi aveste del nostro piccolo baraccone un’idea sbagliata. L’amore ha un senso orizzontale, ma anche uno verticale, che è forse quasi più importante.

Allora vorremmo intrattenervi un po’ su questo amore verticale, che riguarda anche il mondo della musica. Ci vedete, siamo delle persone molto anziane,ci sono le ambulanze dietro, se succede qualcosa, siamo prontissimi (il pubblico dietro),che hanno però in qualche modo,io credo,imparato a gestire la propria vita e la propria musica,in senso particolare,direi così, non voglio aggettivi troppo impegnativi. Vi raccontiamo qualche storia di amore verticale,che ci ha aiutato e fatto capire che si può fare musica in questo modo, senza avere contratti,senza avere soldi,senza avere nulla.

Semplicemente il piacere di farla.

Questo era un locale di Roma,che ha fatto crescere straordinari cantanti, cantautori: Francesco De Gregori, suo fratello, Mimmo Locasciulli,vi prego, cancellate quest’ultima cosa (il pubblico ride); un altro di cui non mi ricordo il nome,un tifoso della Roma,uno che…le canzoni sulla Roma, ecc…

Un locale in cui ha suonato Bob Dylan…

In quel tempo, non era così facile. un locale che è grande un dodicesimo di questo palco,uno scantinato dentro Roma, gestito da una persona meravigliosa che ha insegnato e dato la possibilità a tanti di esibirsi,non è il verbo giusto “esibirsi”,di cantare, di comunicare.

Una della cose meravigliose di Roma sono dei temporali violentissimi, improvvisi, nello scantinato, acqua alta così.(…)

C’erano ottanta persone e abbiamo suonato, c’era come sempre,una specie di tenda minuscola,c’era un registratore che suonava solo l’Internazionale. Lo so, forse è una fissazione,ma è stata una fissazione tutta la vita,in questo locale che si chiama Folkstudio,è stato per tutti i musicisti italiani,un’idea, oltre che una possibilità di esprimersi e di capire che la musica non è quella che si ascolta alla radio o alla televisione,la musica è qualche cosa che si fa per strada.

Giancarlo è venuto a mancare da un paio d’anni,questa canzone è dedicata a lui e s’intitola “Folkstudio”.

 

Esegue: “Folkstudio”.

 

CL: Grazie Giancarlo[14] per tutto quello che hai fatto per la musica. Un’altra cosa molto velocemente:vi leggo quattro quartine.

Ho suonato con un artista che pochi in Italia conoscono,un grande anarchico, diciamolo pure in senso popolare, un ubriacone, livornese, parente dell’ex-presidente della Repubblica: Piero Ciampi. Nessuno lo conosce, alcuni sì, sono contento per voi. Piero Ciampi ha insegnato a tutti a scrivere le canzoni serie in Italia. Straordinario e poco conosciuto,però non voglio insistere. Una cosa sola: devo dirvela perché riguarda poi non solo lui, ma noi e voi, noi e la casa della musica e l’imbuto straordinario, strepitoso che c’è nel mercato della musica.

I pezzi di Piero sono stranissimi, hanno una struttura molto strana, è “lungo”.

Io ho regalato (piccola parentesi), al mio amico Francesco Guccini: “Keaton”,che dura dieci minuti,ma quando l’ho presentata io, la casa discografica, ha detto: ma sei scemo?

Quando gliel’ha presentata lui hanno detto:è un capolavoro!

La lunghezza delle canzoni è una cosa che infastidisce i pubblicanti o i “pubblicani” se si vuole usare un termine latino.

Questa canzone di Piero è lunga ed ha una struttura strana, quando lui finisce di cantare ed è questo che mi ha colpito,se vuoi potreste ascoltarla, i potenziometri si azzerano con una velocità che quasi è violenza, anzi è violenza.

Come se tutti quelli che contribuiscono tecnicamente a questa produzione,dicessero come nella “E la Nave va” di Fellini”:finalmente ha finito, basta!Che palle!

Questa è una ferita che mi è rimasta, allora ho scritto queste quattro quartine a Piero, “I musicisti di Ciampi”,che vi leggo se voi avete pazienza.

Io ho studiato anche recitazione (dice scherzando, ma con tono semiserio), non vi sconvolgerò. Abbiate pazienza, perdonatemi. Amatemi,sono con voi, siete con me!

(Il pubblico ride). Ricordatevi una cosa (intanto il maestro Capodacqua avvolge le parole di Lolli con la sua musica): la cialtroneria è l’arte sublime della vita, (…)

 

Esegue recitando: “I musicisti di Ciampi”, segue poi con “Quando la morte avrà”.

 

Spesso non canta con il volto diretto verso il pubblico, ma obliquamente e ad occhi chiusi, è estremamente naturale, il suo stato di ebbrezza si alza molto lievemente, ma il suo taccuino lo guida con serenità; il suo carisma rimane immutato e il concerto s’impregna di una incredibile intensità intimistica. Alla fine della canzone, Lolli e Capodacqua si scambiano delle parole lontano dal microfono.

 

CL: Grazie, è difficile cantare una canzone come questa, ma più o meno ce l’ho fatta.

Allora, volevo dirvi codesta cosa, visto che siamo a Firenze si può dire.

Non so se vi siete resi conto di un fatto: la prima parte del concertino, le prime quattro canzoni riguardavano il mondo, la società,il potere, il fuori,le altre tre o

quattro,riguardavano il dentro, l’esistenza dell’amore. C’è stato un momento in cui questa divisione, questa scissione per me non esisteva e io vorrei raccontarvi alcune piccole cose,di quel momento in cui fare l’amore era come votare a sinistra. Baciare una ragazza era un gesto rivoluzionario; fare volantinaggio e attaccare i manifesti sulle strade di Bologna era come una specie di regalo di fidanzamento. (…)

Il maestro continua a suonare e io comincio quando mi pare…

 

ESegue: Anna di Francia”

 

 

CL: E come lei ce n’erano tanti che se ne andavano. (…)

 

Esegue: “Ho visto anche degli zingari felici”

 

Si presenta: “Lui è Paolo, io sono Claudio”… poi ringrazia ed esplode un applauso fragorosissimo

 

CL: Ho scritto questa canzone qui quando avevo diciassette anni, quindi nel 1967 (altre biografie dicono invece 1968).

A quell’epoca leggevo dei testi importanti, Marx, Engel, ecc.

Questa canzone mi ha creato veramente molti problemi.

 

Fa un gioco, spinge il pubblico ad indovinare quale canzone viene introdotta dalle note divaganti di Capodacqua. Scherza sulle modalità del gioco. Nessuno indovina, l’introduzione è incantevole, ma troppo divagante. La canzone era “Borghesia”.

 

Esegue “Borghesia”, con le dovute, famose, modifiche e interventi.

 

Così si chiude il concerto e molti accerchiano quelli che gli ammiratori chiamano tranquillamente “Claudio”, personalmente non ho mai visto così tante persone ringraziare un cantautore di nicchia ad un suo concerto.

La cosa impressionante è che era una “nicchia” molto variegata: giovani, meno giovani, persone della media società, intellettuali e gente di strada ricoperta di stracci.

C’è chi regalava libri, chi chiede autografi, chi fotografa; la gente gli fa tantissime domande e lui risponde pazientemente con umiltà e dedizione.

A proposito di pubblico e di relazioni con esso, vorrei riportare alcune impressioni tratte dal documentario di Salvo Manzone:

 

– Penso di averlo sentito le prime volte a Bologna, quando sono venuto a studiare e appunto era un periodo un po’ “strano”, per cui mi ero fissato con quel disco che era abbastanza “pesante”se sentito più di una volta al giorno…

  • Chissà se lui sa, comunque immagina quello che è, cosa è stato per molti ventenni…secondo me no…perché se stessi non si sa mai quello che si è per gli altri…facendolo conoscere a tutti i miei amici, siamo diventati un po’ una catena di lolliani…
  • Non è andato a Sanremo, non è stato forse neanche al premio Tenco (invece ha fatto un’apparizione al premio Tenco del 1982, trasmesso dalla Rai, cantando Anna di Francia), lo puoi conoscere solo se te l’ha fatto conoscere qualcuno…
  • I suoi alunni: è il migliore sicuramente, è un grande…perché ci capisce…non c’è un rapporto studente-professore come con gli altri, siamo amici…tre anni fa, siamo andati a comprare un suo cd, quando abbiamo detto al commesso che era il nostro professore questo qua per poco non ci sveniva in mano…ha iniziato a parlarci di tutto e di più…io non sapevo veramente niente, è stata una sopresa trovare un suo cd alla Ricordi. […] Quando abbiamo visto il cd e lo stupore del commesso abbiamo capito che era qualcuno di famoso […]

    E’ anche molto modesto perché una volta gli abbiamo portato in classe uno    stereo con le sue canzoni e lui non ci ha detto niente, non è che si è pavoneggiato, semplicemente si è fatto una gran risata e ha ricominciato a spiegare latino, per sfortuna.

  • Ho conosciuto Claudio Lolli ancora prima di conoscere e cantare le sue canzoni…perché egli per me è una parte di me stesso, per cui scoprire Claudio Lolli è stato come scoprire una visione del mondo che io stesso già in fondo avevo…si è diciamo infiltrato come un virus nella mia vita quotidiana, dico virus perché ho iniziato prima io, poi mia sorella, mio padre e mia padre…
  • A quindici, sedici anni, c’erano quelli che a Bologna andavano in discoteca il pomeriggio e invece c’era la gente che come me ascoltava le canzoni di Claudio Lolli e cercava di tirare giù gli accordi con la chitarra. Credo abbia determinato il futuro e la sensibilità di diversi gruppi di persone.

 

CONCLUSIONI

 

Per la realizzazione di questo lavoro, mi sono avvalso della lettura di vari testi, seppur non molteplici, dell’ascolto di molti album, dell’analisi di tantissimi brani sia per l’aspetto musicale che testuale.

Mi è stato molto utile il Web e l’analisi relativa, dove ho trovato tantissimo materiale e ho potuto cogliere vivamente la voce del pubblico nelle sue più disparate opinioni.

E’ stata altrettanto utile l’analisi di alcuni documenti video.

Ho avuto l’occasione di incontrare e Claudio Lolli in persona a Bologna e Paolo Capodacqua ad Avezzano, i quali  ho intervistato.

Ho attinto in modo diretto, come un campione da analizzare, ad una performance dal vivo di Lolli e Capodacqua a Firenze.

Ringrazio sentitamente Capodacqua che oltre ad avermi regalato alcuni album e avermi fornito spunti utili per questo lavoro, gentilmente mi ha fornito gli introvabili e ormai fuori catalogo testi letterari di Lolli che mi hanno permesso di studiare questo lato non direttamente legato alla sua produzione musicale.

Ringrazio doverosamente il mio Relatore Ferdinando Abbri per avermi consentito di approfonfire questo argomento un po’ particolare ed inoltre la mia correlatrice Fulvia Caruso che mi ha seguito tenacemente.

Infine, ringrazio la mia famiglia a cui debbo tutto.

 

BIBLIOGRAFIA

 

  • “Claudio Lolli, La Terra, La Luna e l’Abbondanza” , Jonathan Giustini, Stampa Alternativa,2003
  • “Rumore Rosa”, Claudio Lolli, Stampa Alternativa, 2004
  • “Nei sogni degli altri”, Claudio Lolli, Marsilio, 1995
  • Giochi Crudeli, Claudio Lolli Transeuropa, 1990

 

 

 

[1] Da “Analfabetizzazione”,dall’album “Disoccupate le strade dai sogni” del “77, frase che può condensare una ribellione estrema fino al punto da divenire utopica, una ribellione che vuole scardinare l’alfabeto, il linguaggio, inteso come il linguaggio del potere.

[2] In riferimento all’ultimo album del 2006 “La scoperta dell’America”

[3] Enciclopedia online Wilkipedia:          http://it.wikipedia.org/wiki/Claudio_Lolli

[4] Jonathan Giustizi, Claudio Lolli: La terra, la luna, l’abbondanza, 2003, Nuovi Equilibri

[5] Da “Salvarsi la vita con la musica”, documentario, Salvo Manzone

[6] Documentario di Salvo Manzone  “Salvarsi la vita con la musica”

[7] Idem nota 6

[8] http://guide.dada.net/musica_progressive/interventi/2003/05/135460.shtml

[9] Citazione non fedele da “Autobiografia industriale”.

[10] Canzone contenuta in “Aspettando Godot”.

[11] Etichetta discografica indipendente

[12] Poeta che ha collaborato molto con il duo Lolli-Capodacqua

[13] E’ posto tra virgolette in quanto successivamente nel testo si indica come termine impreciso

[14] Sta riferendosi a Giancarlo Cesaroni

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