Cenni biografici autore

Negli ultimi cinque-sei anni, in tutto il pianeta, abbiamo assistito
all’affermarsi vertiginoso della fotografia digitale, seppur questa
forma di fotografia esista da qualche decennio. Con questa relazione,
voglio focalizzare delle questioni molto discusse che si intersecano
con il campo della filosofia, dell’arte, della società e
dell’informatica. Capire che cosa è la fotografia digitale e da cosa
si differenzia da quella analogica, cosa è cambiato e come molti
artisti si sono serviti di essa. La fotografia divenne un “hobby”
diffuso già dalla sua invenvenzione e per i successivi centosessanta
anni è sempre rimasto l’uso di una pellicola “fisica”, in una forma o
in un’altra. Oggi, con lo sviluppo dei moderni dispositivi che
convertono la luce in segnali elettronici, l’era della pellicola
fotografica tradizionale si avvicina al tramonto.

La fotografia digitale presenta numerosi vantaggi rispetto a quella
tradizionale e proprio questi vantaggi hanno rivoluzionato l’aspetto
prettamente ontologico dei fotografi commerciali, quelle figure da cui
ci si recava a far sviluppare le foto ad uso prevalentemente
familiare.

Non è più necessario acquistare rullini, né pagare per farli
sviluppare, grazie a una scheda di memoria è possibile immagazzinare
una grande quantità di files che è possibile trasferire su qualsiasi
supporto e direttamente in un personal computer e quindi pubblicarle
sul web.

Se vogliamo considerare il passaggio da un tipo di fotografia
all’altra, ci dobbiamo chiedere se sia veramente cambiata l’essenza
della fotografia stessa o se continua a svolgere la funzione che
svolgeva prima.

Dobbiamo domandarci in che termini possiamo parlare di “rivoluzione”.

Proprio su questo termine, si concentra il discorso di Claudio Marra
ne “La falsa rivoluzione della fotografia digitale”, un testo che già
dalla prefazione precisa la sua non opposizione alla tecnica digitale,
ma si prepone far luce su molti aspetti con chiarezza ed obiettività,
ed è quello che cercherò di fare in breve in questa sede. Per fare
ciò, bisogna partire da osservazioni banali, ma che ci aiutano a
capire cosa sia veramente cambiato.

Abbiamo accennato a quanto sia facile rispetto a prima, evitando un
consistente impiego economico, produrre una sterminata quantità di
fotografie.

Altro aspetto da considerare è il concetto di diffusione.

Una fotografia digitale è di fatto “immateriale”, ovvero un file che
può essere trasformato in un supporto cartaceo o meno, ma di fatto un
file.

Attraverso il web è possibile diffondere il nostro prodotto da un
punto all’altro del pianeta a una velocità quasi istantanea.

Una considerazione legata la concetto di “immaterialità” di ciò che
produciamo è collegabile all’affannoso problema della conservazione
informatica.

Non ci troviamo più di fronte ad album fotografici gelosamente
custoditi nei cassetti, ma a cd-rom, a files depositati in hard-disk
esterni o di personal computer.

E’ anche vero che è possibile avere una copia cartecea di questi
files, ma è pratica poco comune.

In questi casi, la conservazione diventa un problema, questi supporti
non hanno una durata raffrontabile con i supporti cartacei; quindi si
parla di conservazione volontaria e non passiva. Di questi concetti si
occupano i manuali di archivistica più dettagliatamente.

Con queste osservazioni pressocché scontante, ormai alla portata di
tutti, voglio considerare gli aspetti che hanno portato alla vera
rivoluzione, per poi considerare cosa effettivamente sia rimasto tale
e quale rispetto all’era analogica.

Un altro aspetto legato alla tecnologia digitale e alla tecnologia in
sè, è la diffusione delle fotocamere nei telefoni cellulari.

Se formalmente cambia poco tra una fotocamera di bassa qualità e una
fotocamera inserita in un telefono cellulare, a livello sociale cambia
moltissimo.

E’ raro che la maggior parte delle persone porti con sè sempre una
fotocamera,

a meno che non si parli di giornalisti, paparazzi, fotoamatori o
appassionati, ma è raro per le persone comuni, mentre è di gran lunga
più probabile che chiunque disponga di un telefonino avente la vera e
propria funzione di protesi.

Se in un telefonino inseriamo una fotocamera digitale, seppur di bassa
qualità, avere la possibilità di fotografare ovunque si vada, con la
certezza di avere questo strumento a portata di mano, è una
consistente rivoluzione culturale.

Si è parlato anche in alcuni casi del valore artistico e simbolico di
questo tipo di fotografie, spesso sgranate, non propriamente limpide.

Si dice che si avvicinano maggiormente al “regno della memoria”; di
fatto un nostro ricordo, pur limpido che possa essere, differisce
sempre dalla realtà.

Proseguendo con le osservazioni pro-rivoluzione nell’ambito della
fotografia digitale, dobbiamo partire dalle considerazioni formulate
agli albori della fotografia digitale, quando era assai accesa la
questione sul fatto di considerare arte o meno la pratica della
fotografia.

In un primo tempo, i fotografi venivano considerati dei pittori
falliti e l’imitazione dei canoni estetici della pittura era assai
diffusa.

Ciò che portava alla separazione ideale della fotografia dall’arte era
il legame indissolubile con la meccanicità del mezzo e con il
referente.

Si può dipingere un albero anche in una stanza vuota, ma non si può
fotografarlo, una immagine per rendere l’idea di referente.

Durissimi gli attacchi da parte delle più imponenti figure del tempo;
una delle posizioni a questo proposito più famose, è quella di
Baudelaire.

Ovviamente bisogna contestualizzare questa posizione che oggi avrebbe
poco senso, visti gli sviluppi nell’arte per merito della fotografia.

Tant’è vero che molti ritengono che oggi Baudelaire sarebbe “un fan
sfegatato” della fotografia digitale.

Vista l’importanza delle affermazioni del poeta, riporto di seguito
quanto all’epoca affermato:

( CHARLES BAUDELAIRE

II pubblico moderno e la fotografia

Salon – 1859

Charle Baudelaire, Scritti di estetica, Firenze, Sansoni,1948

traduzione: A.Luzzato )

 

E’ sorta in questi deplorevoli giorni una nuova industria che ha
contribuito non poco a distruggere ciò che di divino forse restava
nello spirito francese. E noto che la folla idolatra richiedeva un
ideale degno di sé e conforme alla propria natura. In fatto di pittura
e di statuaria, il Credo attuale della buona società, soprattutto in
Francia (e ritengo che nessuno osi affermare il contrario), è questo:
«Credo nella natura e non credo che nella natura (ci sono buone
ragioni per questo). Credo che l’arte sia e non possa essere che la
riproduzione esatta della natura (una setta timida e dissidente vuole
che siano esclusi gli oggetti ripugnanti come un vaso da notte o uno
scheletro). Sicché l’industria che ci desse un risultato identico alla
natura sarebbe l’arte assoluta».

Un Dio vindice ha esaudito i voti di questa moltitudine. Daguerre fu
il suo Messia. E allora essa disse tra sé: «Giacché la fotografia ci
da tutte le garanzie d’esattezza che si possono desiderare (credono
questo, gli insensati!) l’arte è la fotografia». Da quel momento,
l’immonda compagnia si precipitò, come un solo Narciso, a contemplare
la propria triviale immagine sul metallo. Una follia, uno
straordinario fanatismo s’impadronì di tutti questi nuovi adoratori
del sole. Strane abominazioni

si manifestarono. Associando e raggnippando gaglioffi e gaglioffe
agghindati come i macellai e le lavandaie a

carnevale, pregando questi eroi di voler prolungare, durante il tempo
necessario all’operazione, la loro smorfia di circostanza, ci si
illuse di rendere le scene, tragiche o leggiadre, della storia antica.
Qualche scrittore democratico ha dovuto vedere in ciò il mezzo di
diffondere a buon mercato nel popolo il disgusto della storia e della
pittura, commettendo così un doppio sacrilegio e insultando, ad un
tempo, la divina pittura e l’arte sublime del commediante. Di lì a
poco, migliaia di occhi avidi si chinarono sui buchi degli stereoscopi
come sugli abbaini dell’infinito. L’amore dell’osceno, naturalmente
vivo nel cuore dell’uomo quanto l’amore di sé, non lasciò sfuggire
un’occasione così bella per soddisfarsi. E non si dica che i ragazzi
di ritorno dalla scuola fossero i soli a godere di quelle porcherie;
esse furono la frenesia della società. Ho udito una bella signora, una
signora del bel mondo, non già del mio mondo, rispondere a coloro che
le nascondevano con discrezione simili immagini, preoccupandosi così
d’aver pudore per lei:

«Mostrate pure, non c’è niente di troppo forte per me». Giuro di aver
udito con le mie orecchie; ma chi mi crederà? «Vedete bene che si
tratta di grandi dame!» dice Alessandro Dumas. «Ce ne sono di ancor
più grandi!» dice Cazotte.

Poiché l’industria fotografica era il rifugio di tutti i pittori
mancati, scarsamente dotati o troppo pigri per compiere i loro i
studi, questa frenesia universale aveva non solo il carattere
dell’accecamento e dell’imbecillità, ma anche il colore d’una
vendetta. Che un così stupido complotto, nel quale si trovano, come in
tutti gli altri, i malvagi e i gonzi, possa riuscire in modo assoluto
non credo, o almeno non voglio credere; ma sono convinto che i
progressi male applicati della fotografia hanno

contribuito molto, come d’altronde tutti i progressi puramente
materiali, all’impoverimento del genio artistico francese, già così
raro.

La fatuità moderna avrà un bel ruggire, eruttare tutti i gorgoglii
della sua tonda personalità, vomitare tutti i sofismi indigesti di cui
una recente filosofia l’ha rimpinzata a crepapelle, ciò va inteso nel
senso che l’industria, facendo irruzione nell’arte, ne diviene la più
mortale nemica, e la confusione delle funzioni fa si che nessuna sia
compiuta a dovere. La poesia e il progresso sono due ambiziosi che si
odiano d’un odio istintivo, e, quando s’incontrano sulla stessa
strada, bisogna che uno dei due serva l’altro. Se si concede alla
fotografia di sostituire l’arte in qualcuna delle sue funzioni, essa
presto la soppianterà o la corromperà del tutto, grazie alla alleanza
naturale che troverà nell’idiozia della moltitudine.

Bisogna dunque che essa torni al suo vero compito, quello di essere la
serva delle scienze e delle arti, ma la serva umilissima, come la
stampa e la stenografìa, che non hanno ne creato ne sostituito la
letteratura. Arricchisca pure rapidamente l’album del viaggiatore e
ridia ai suoi occhi la precisione che può far difetto alla sua
memoria, adorni pure la biblioteca del naturalista, ingrandisca gli
animali microscopici, conforti perfino di qualche informazione le
ipotesi dell’astronomo; sia,

insomma, il segretario e il taccuino di chiunque nella sua professione
ha bisogno d’un’assoluta esattezza materiale, fin qui nulla di meglio.
Salvi pure dall’oblio le rovine cadenti, i libri, le stampe e i
manoscritti che il tempo divora, le cose preziose di cui va sparendo
la forma, che chiedono un posto negli archivi della nostra memoria:
sarà ringraziata e applaudita.

Ma se le si concede di usurpare il dominio dell’impalpabile e
dell’immaginario, e di tutto quello che vale solo per quel tanto
d’anima che l’uomo vi mette, allora poveri noi!So bene che parecchi mi
diranno: «La malattia che siete venuto spiegando è quella degli
imbecilli. Qual uomo, degno del nome d’artista, o che ami veramente
l’arte, ha mai confuso l’arte con l’industria?». Lo so, eppure
chiederò loro, a mia volta, se credono al contagio del bene e del
male, all’azione delle folle sugli individui e all’obbedienza
involontaria, forzata, dell’individuo alla folla.

Che l’artista agisca sul pubblico, e che il pubblico reagisca
sull’artista, è una legge incontestabile e inoppugnabile; d’altronde i
fatti, terribili testimoni, sono facili a studiare; il disastro si può
verificare. L’arte ha sempre meno il rispetto di se stessa, si pro-
sterna davanti alla realtà esteriore, e il pittore si fa sempre più
incline a dipingere, non già quello che sogna, ma quello che vede.
Pure è una felicita sognare, ed era una gloria esprimere quello che si
sognava; ma che dico? Conosce ancora, l’artista, questa felicità?
Affermerà l’osservatore in buona fede che l’invasione della

fotografia e la grande follia industriale sono assolutamente estranee
a questo deplorevole risultato?

E permesso supporre che un popolo i cui occhi si abituino a
considerare i risultati d’una scienza materiale come prodotti del
bello, dopo un certo tempo si trovi con la facoltà di giudicare e
sentire ciò che vi è di più etereo e di più immateriale singolarmente
attenuata?

Che cosa permette alla fotografia digitale di entrare nel nobile regno
dell’arte?

Innanzitutto, vorrei precisare, che con questa domanda, si parte da un
falso concetto, ovvero dal fatto che la fotografia analogica non sia
arte. Grazie a numerosi fotografi del passato ci rendiamo conto di
come, anche con l’analogico fosse possibile già decenni e decenni
prima, far parte del nobile regno dell’arte, nonostante
l’imprescindibile meccanicità del mezzo.

Spesso i fotografi diventavano anche “performer”, ovvero erano capaci
di ricostruire situazioni immaginarie in prima persona e non solo,
partendo dagli strumenti reali che avevano a disposizione. Vi era una
vera e propria messa in scena, spesso si assoldavano degli attori e si
poteva fotografare X “come se” fosse Y e l’effetto visivo era
all’epoca molto forte.

Spesso erano frequenti citazioni colte dal campo della pittura, è il
caso di Rejlander; oppure dal campo della letteratura e del teatro, è
il caso di Julia Margaret Cameron, ricordiamo le figure di Prospero,
Lancillotto e Ginevra, Beatrice.

Insomma, in questo modo, si sconfina dalla fotografia di consumo
classica, la cui funzione era solo quella di raffiguare i propri cari,
oppure di riprodurre la natura, spesso in termini paesaggistici.

Ritornando alla domanda di prima con cui abbiamo iniziato questo
discorso, dobbiamo affrontare il concetto di “modificabilità”.

Come sappiamo, con la tecnologia digitale, è diventato ormai
facilissimo modificare a piacimento un’immagine da noi prodotta, basta
un qualsiasi software utilizzabile attraverso un computer.

Il concetto di poter modificare senza nessun limite un’immagine ci
riconduce alle potenzialità della pittura e nonostante si parta sempre
da uno scatto meccanico, l’apporto manuale in una fase successiva,
riveste un ruolo determinante, tale da far riacquistare alla
fotografia ciò che le avevano contestato i detrattori.

Ovviamente, già circa un secolo prima, attraverso procedimenti molto
complicati e di certo non alla portata di tutti, era possibile
modificare le immagini.

Famosi i fotomontaggi, le doppie esposizioni, sovraesposizioni e
procedimenti di questo tipo abbastanza diffusi.

Singolare il diffondersi di certa fotografia spiritica, dove molte
fotografie che raffiguravano sedicenti “fantasmi” venivano spacciate
per vere.

In questo caso, oltre al concetto di modificabilità e quindi di
potenzialità artistica, ci introduciamo verso il concetto di realtà.

Per sua natura, la fotografia, ha sempre rappresentato uno specchio
fedele della realtà.

Il meccanismo mentale comune è pressocché il seguente “se quella è una
fotografia, allora è vero”.

Niente di più errato e niente di più vero.

Come sappiamo, che sia analogica o digitale, la fotografia è
ampiamente modificabile rispetto allo scatto primario. Inoltre, è
possibile ricostruire una situazione in maniera molto verosimile.

Famose molte immigini storiche dove vi è proprio questo ibrido di
finzione e realtà.

E’ il caso dell’immagine della Breccia di Porta Pia ad esempio, in cui
nonostante l’accadimento vero e proprio si sia verificato il giorno
prima dello scatto, il giorno dopo è avvenuta una ricostruzione,
richiamando in scena gli autentici fautori dell’evento.

In altri casi, la fotografia può sempre rappresentare un importante
testimonianza della realtà, anche e soprattutto nel caso digitale.

Non perché una foto sia digitale, allora non sia possibile impiegarla
per documenti di identità o in caso di prove schiaccianti di un
crimine.

Sono proprio delle foto scattate con delle fotocamere di cellulari a
incastrare dei militari in Iraq intenti in torture disumane.

Come vediamo, il concetto di realtà varia da caso a caso e nel
digitale, nonostante alcuni aspetti vengono esasperati, il contatto
con la realtà non viene mai completamente smarrito.

Se ci si può divincolare dal referente e da esso si può approdare
altrove con facilità, non si può comunque escluderlo per la maggior
parte dei casi.

Dobbiamo anche considerare come il confine tra digitale ed analogico
sia piuttosto labile.

In una fotocamera digitale esistono procedimenti identici a quelli
analogici, nonostante il risultato finale, come sappiamo, ben diverso.

Così come una fotografia analogica in formato cartaceo, immessa in uno
scanner, si trasforma in un’immagine digitale a tutti gli effetti.

Concludendo, possiamo arrivare al punto in cui bisogna distinguere
ogni singolo aspetto e contestualizzarlo a seconda dell’epoca,
dell’artista e dell’impiego che si può fare del “nuovo mezzo”,
evitando luoghi comuni e formulazioni concettuali sommarie ed
affrettate.

VENERDÌ 10 FEBBRAIO 2012

Ho una voglia matta di fotografia.
Ho capito quanto è importante, quanto è entusiasmante.
Sto raccogliendo tutto il mio archivio fotografico, da quando avevo
una digitale della qualità di una webcam.
Dovrei scannerizzare le vecchie foto piano piano, quando torno giù.
Ordinare questo patrimonio personale è un’azione importante per la
propria memoria.
Raccogliendo tutte le foto digitali, ho rivissuto tanti ricordi.
La fotografia è un mezzo ineffabile, sia dal punto di vista della
memoria, sia da quello artistico.
Per il momento la priorità è finire questi dannati esami e poi una
buona catalogazione non farebbe male, soprattutto per non lasciare che
si perda questo archivio.
Con il digitale è facile che tutto vada a puttane se non ci stai
attento.
Bisogna fotografare mese per mese e ordinare mese per mese, non far
accumulare le foto senza nessuna logica.

VENERDÌ 10 FEBBRAIO 2012

Voglia di scrivere
Finalmente mi torna la vena della scrittura.
Questa volta sento che un libro lo posso iniziare e finire.
Non ne parlerò molto in questa sede, se non quando sarà finito.
Penso che non è necessario raccontare chissà che cosa, basta ripescare
nel passato della propria vita, prendere degli spunti e rielaborarli
con la fantasia.
Come nella nostra vita, come nella vita degli altri.
Avendo tempo, vorrei mettere mano anche ai vecchi testi e
“confezionarli” meglio.
Sto tenendo una piccola pennina solo per i file di testo, quella da
256 mb.
Io dico che per scrivere dei libri, basta e avanza, per le altre cose
utilizzo le altre pennine.
Penso che bisogna seguire la voglia che si ha di raccontare, di
dipingere, non per forza si devono architettare centinaia di
personaggi con dinamiche complicate, ritengo che puoi far vedere al
lettore quello che stai “visionando”, semplicemente dando delle
immagini.
Inoltre, perché scrivere un libro?
A differenza delle altre arti, penso sia meno dispendioso, ci vuole
solo più tempo.
E’ rara la pirateria letteraria, inoltre un ebook non potrà mai
sostituire il cartaceo, per non parlare del fatto che i costi di
produzione primaria sono zero.
Per incidere un disco devi avere migliaia di euro di macchinari, per
scrivere un libro, basterebbe solo un po’ di carta e calamaio, ma se
vogliamo andare alla grande, un pc obsoleto con word va benissimo.
E’ ovvio che è assai difficile farsi pubblicare, ma non deve essere
questo l’obiettivo principale, si deve scrivere per il gusto di
scrivere, poi avendo un libro in mano, si vede come collocarlo al
meglio.

Giovanni D’Iàpico

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