Undo merita più ascolti. Tutti in cuffia e in alta qualità.
Dunque via youtube, via spotify, via tutto ciò che
mortifica la musica ben suonata e ben curata. 
Dopo pochi ascolti avevo già espresso un primo giudizio: è migliore rispetto al precedente, senza ombra di dubbio: è più ricco di strumenti (le chitarre di Gianluca Martino sono pregevolissime), non è completamente strumentale e, infine, è più colto, più contaminato, più raffinato.

A cominciare dal primo brano, quella splendida Suite power che definisco (pesando bene le parole) come un brano progressive a tutti gli effetti. Se l’album fosse stato un concept, il tema di questa canzone sarebbe stato ripreso più volte nel corso di tutta l’opera e sarebbe stato un bell’effetto.

Si tratta dell’unico brano esteso (quasi sette minuti mentre gli altri hanno più la “forma” canzone, quasi tutti sotto i quattro minuti) ed anche tale caratteristica suffraga l’appellativo di prog-song.
Notevole l’intermezzo orientale (voci e uno strumento elaborato sinteticamente che sembra un duduk armeno) dopo circa un minuto seguito da un accenno (pochi secondi) di canto liturgico.
Il tempo di un altro
minuto e il brano sale improvvisamente di intensità e diventa addirittura orchestrale (eccolo il prog) per poi assestarsi su un tempo di batteria molto particolare (sicuramente in 4/4 ma stranissimo).

Tornano gli strumenti etnici (ancora il duduk?) e torna anche il tema pianistico di fondo, stavolta filtrato da un so quale effetto che lo pone in secondo piano, quasi in lontananza.
Da questo momento in poi l’intensità sale e
scende in continuazione fino al classico finale pianistico. Se il progressive ha tra le sue caratteristiche i richiami alla classica, i complessi intrecci strumentali, la ricercatezza delle melodie e i tempi inconsueti, Suite power è prog allo stato puro.
I’m on fire è un brano pop-rock piuttosto lineare, di facile ascolto, cantato da Rose White che ha una voce molto particolare, asciutta, diversa dai canoni tradizionali. Una voce che, dopo l’ascolto in anteprima di All I hear is, avevo malgiudicato con troppa fretta. Fabrice l’ha paragonata a quella di Carly Simon: sono d’accordo con lui a patto che si parli della Simon anni 70, quella di You’re so vain, più grezza e roca, più folk rispetto a quella delle hits anni 80.

Là-bas è cantata da Fabrice che ospita Gianluca Martino alla chitarra. Si parla di guerra (“Sulla mia strada ci sono lacrime, nel tuo dolore c’è paura. Non posso arrivare a credere in questa storia. Perché laggiù c’è tutto questo disordine?”) e si sceglie di farlo con un brano melodico e dolcissimo, dal tono quasi rassegnato. Non mi sembra di ricordare Quagliotti alle prese con il canto nei Rockets argentati (ad eccezione di alcune parti di vocoder) quindi, per me, la sua voce solista è una novità assoluta. Debbo ammettere che è bella, molto melodica ed evocativa e si presta perfettamente all’interpretazione di questo brano che, tra l’altro, anche solo da un punto di vista fonetico, mi riporta a Le chemin. Peccato per l’autotune (o per qualsivoglia effetto
applicato alla voce) che, esagerando, finisce per snaturarla.

Ma in tale giudizio debbo confessare la mia totale idiosincrasia con tutto ciò che mi riporta al rap, alla trap e a tutta la musica sintetica attuale: è solo un pregiudizio di uno che ha passato i cinquanta ed è malato di reducismo?
Martino è presente anche nella successiva, claustrofobica Couldn’t care. “Non potrebbe importare, non dovrebbe contare. In un mondo che non potrò mai condividere, in una vita che non riesco più a sopportare vorrei essere là fuori” è un passaggio del brano in cui Fabrice traccia un contesto connotato dalla disperazione, dall’assenza di una possibile via d’uscita. E, musicalmente, questa assenza di speranza la si tocca con mano: intro da scenario post-atomico poi un loop di synth sul quale, nell’ultima parte, si staglia una chitarra meravigliosa, graffiante, con uno wah wah ad un tempo antico e moderno.

All I hear is è il brano scelto per lanciare Undo.
Non a caso è denso di collaborazioni: con Rose White, con
Mary Dee (dovrebbe trattarsi della Chalut Marie Denise inserita nei crediti) e con il giovane dj Axel Cooper
(le due voci registrate rispettivamente a Londra e a Montreal).
Il primo minuto è da brividi: pianoforte, melodia struggente e la voce di Rose White che fa da contraltare a tanta dolcezza con il suo timbro vocale che sembra, da un lato, quello di una ragazzina alle prime armi e, dall’altro, quello di una rocker a stelle e strisce emula della Patti Smith dei tempi d’oro.

Quindi subentra il Fabrice odierno – che ha il merito di coniugare sapientemente elettronica e romanticismo – e All I hear is spicca il volo, sale di intensità poi torna alla melodia iniziale e cresce nuovamente fino a spegnersi nella stessa dolcezza dell’intro.

Brano notevole, accattivante, che Quagliotti ha il buon gusto di raccogliere in meno di quattro minuti per non scadere nell’autocompiacimento e nel narcisismo: le intuizioni felici non vanno mai ripetute troppo a lungo.

Ripensando all’appello fatto da Fabrice sui social quando era alla ricerca di un “fischiatore” per una parte di un brano, le prime note al pianoforte di Recommencer, prima ancora che il “Whistle man” si mettesse all’opera, suggeriscono chiaramente che si tratta esattamente di “quel” brano perché, davvero, si presta egregiamente ad una parte fischiettata nello stile degli Scorpions di Wind of change.

Si tratta di un’altra ballata forse esageratamente romantica, cantata in francese (voce registrata a Parigi) da Sofian Messadi, in arte Sow, artista emergente di appena 19 anni di origini, credo, nordafricane. Ai cori Aki Chindamo, Gianluca Martino, Barbara Baseggio e i coniugi Fabrice Quagliotti e Paola Rapinese mentre alle chitarre ci sono Michele Violante e lo stesso Gianluca Martino.

“Dimmi perché dobbiamo ricominciare tutto da capo, dimmi perché non è eterno, dimmi perché il paradiso in terra senza di te è un inferno”: il testo descrive un amore complicato (“L’amore che dò non è quello che mi viene restituito”) che subisce una pausa o che si spegne definitivamente lasciando uno dei due con il cuore straziato (“Il tuo paradiso sarà il mio inferno”). Nulla di originale ma perfettamente in linea con la musica.

L’inizio di Heartbeat è nello stile dei brani recentemente pubblicati da Alain Maratrat nel suo canale Youtube poi, a partire dal minuto 2.30, parte un riff di chitarra del solito Gianluca Martino che duetta mirabilmente con Fabrice in un crescendo ricchissimo di pathos. L’assolo finale, pregevolissimo, riprende il duetto con la tastiera – richiamando stavolta Electromental di Alienation – fino a spegnersi su di un battito cardiaco.
I due brani successivi (Go round go down e No sound) sono i più vicini alle sonorità dei Rockets argentati.

Non solo per il vocoder presente in entrambi ma, più in generale, per una certa atmosfera che è in grado di
ricreare. L’intro di Go round go down ci riporta addirittura a Radio station o a Sweetest dream che la band eseguì nel corso del tour del 1982 e che venne pubblicata nella raccolta The definitive collection del 2000.
Per il resto è un onesto brano dance arricchito dalla solita bella chitarra di Martino. Il passaggio a No sound (i due brani sembrano quasi legati in una sorta di mini concept) è assicurato dal vocoder che chiude il primo
ripetendo il titolo/ritornello e apre il secondo con una certa affinità anche nel testo (“I will connect you now”?), sicuramente cercata e voluta. La partecipazione è di Shinobi che canta un testo in Darija (la forma dialettale della lingua araba comunemente parlata in Marocco) su una base rap eseguita solo da Fabrice.

No sound è la canzone più amata dai fan dei Rockets per almeno due motivi: il rimando a Electromental (dal minuto 2,30 circa) è stavolta nettissimo; inoltre il vocoder applicato alla voce ricorda incredibilmente quello di fine anni 70/inizio 80 tanto da provocare un tuffo al cuore a coloro che, all’epoca, erano rimasti affascinati da questa futuristica innovazione proposta dal gruppo.

Vado controcorrente ma, a mio modo di vedere, la sorpresa più bella arriva alla fine dell’album. Lifted è un brano di splendida musica classica, un pezzo orchestrale che, almeno nella parte iniziale, è un omaggio a Erik Satie: la citazione della Gymnopédie numéro un del compositore e pianista francese nato in Normandia nel 1866 è infatti una delizia per gli appassionati del genere e della tecnica dell’ostinato (il ripetersi quasi ossessivo di una serie di note). Fabrice adotta tale tecnica per meno di un minuto poi è come se passasse repentinamente da una musica modale ad una musica tonale: è principalmente grazie a tale passaggio repentino che gli orizzonti si aprono all’orchestra e si viene trasportati in un mondo diverso, meraviglioso,
pienamente sereno.

Dall’atmosfera plumbea e angosciante di inizio brano, ci si ritrova dunque in un
contesto antitetico, in una sorta di mondo parallelo che è anche un modo per legare perfettamente i due album solisti di Fabrice Pascal.

Alessandro Savi

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